martedì 7 agosto 2012
​Il primo ministro è in Giordania: «Quando mi hanno incaricato di presiedere il governo non avevo scelta». Gli insorti dell'Els: «Tre pellegrini iraniani uccisi dalle bombe dei lealisti. Ammazzeremo gli altri prigionieri se non smetteranno di attaccarci».
Errori e orrori in serie ridanno ruolo ad al-Qaeda di Vittorio E. Parsi
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​Si spara a Damasco, la battaglia finale per la Siria si gioca casa per casa ad Aleppo, ma a perdere i pezzi è la cupola del potere di Bashar al-Assad: il premier Riad Hijab, l’uomo che da giugno guidava il governo incaricato di attuare le riforme promesse dal rais, è fuggito all’estero.«È stato licenziato», annunciava la tv di Stato di Damasco. Un duro colpo e mal parato. Riad Hijab in realtà, dopo mesi di contatti con i vertici dell’Esercito libero siriano, era già in Giordania con l’intera famiglia: una diserzione con accuse al cuore al potere che fino a ieri impersonava lui stesso. In Siria è in corso «un genocidio commesso dal regime». Una fuga all’estero e da ogni complicità con il presidente Assad: «Quando mi hanno incaricato di presiedere il governo non avevo altra scelta. Da allora ho organizzato la mia diserzione pensando che avrebbe contribuito a far crollare il regime», ha spiegato Hijab attraverso un suo portavoce all’emittente al-Arabiya annunciando di «unirsi ai ranghi della rivolta».Un piano organizzato «nei minimi dettagli da almeno due mesi» e «portato a termine grazie all’Esercito libero siriano». Una fuga più volte rimandata, poiché «minacciato di morte». Tutti i ministri vorrebbero disertare, ha aggiunto l’ex premier, ma «non possono perché in Siria vige uno stato di polizia: chiunque osi opporsi rischia la morte e così i suoi familiari». Immediatamente Assad ha nominato premier ad interim Omar Ghalawanji, già vice-premier e ministro delle Amministrazioni locali.Una sostituzione che non ha messo a tacere altre voci di defezioni eccellenti: se Hijab con tutto il suo clan è ormai all’estero e dovrebbe nei prossimi giorni raggiungere il Qatar dove ha promesso nuove dichiarazioni, la tv satellitare al-Arabiya riferiva dell’arresto del ministro degli Affari religiosi, Abdel Sattar Sayyid e di quello delle Finanze, Muhammad Jleilati, fermati mentre si accingevano alla fuga. La defezione di quest’ultimo è stata però smentita con una dichiarazione all’agenzia ufficiale Sana: «Svolgo il mio lavoro in piena libertà e trasparenza e nego quanto riportato dai canali che sono complici dello spargimento di sangue di civili siriani», avrebbe affermato Jleilati. Un terzo ministro siriano avrebbe tentato la fuga, mentre in Turchia, dopo la diserzione dell’astronauta Muhammed Faris ieri giungeva pure un altro ufficiale: è il 31esimo dall’inizio della rivolta.Una defezione a così alto livello non poteva passare inosservata: per la Casa Bianca un chiaro segnale che «Assad sta allentando la presa sul potere», affermava il portavoce Jay Garner. Una defezione che per il titolare della Farnesina, Giulio terzi, dimostra il «progressivo isolamento di Assad».Intanto ad Aleppo ieri è proseguita la carneficina: è di almeno 113 morti il bilancio dell’ennesima giornata di sangue in Siria. Lo hanno denunciato i Comitati di coordinamento locale.Una battaglia senza esclusioni di colpi con possibili nuove complicazioni internazionali: tre dei 48 pellegrini iraniani rapiti la scorsa settimana a Damasco dai ribelli – dei pasdaran che combattevano con i lealisti, secondo gli oppositori – hanno perso la vita a causa di «un bombardamento indiscriminato del regime». L’accusa è dei ribelli dell’Esercito siriano libero, autori del rapimento di sabato scorso a Damasco, che hanno minacciato di uccidere gli altri ostaggi, se il regime non metterà fine ai suoi attacchi.Il fronte decisivo è ora quello di Aleppo dove, non ostante i 20mila uomini schierati alle sue porte, ieri non è iniziata la “battaglia finale”. A Damasco invece un nuovo attentano ai luoghi simbolo: ieri mattina una forte esplosione ha colpito la sede della televisione di Stato siriana a Damasco. Feriti lievemente tre impiegati. Nessuna rivendicazione, ma un segnale che un nuovo attacco ai palazzi del potere è possibile in ogni momento.
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