È l’ora delle armi, adesso, a Tripoli e dintorni. Quelle armi che rappresentano un’altra chiave di lettura delle mosse di questi giorni sullo scacchiere internazionale. Delle mire francesi su petrolio e gas della Libia molti hanno detto. Ma anche dietro all’asse italo-russo che avrebbe frenato nelle ultime ore gli "ardori" di Sarkozy si può scorgere, in controluce, una ragione economica: oltre alla vicinanza storica con Gheddafi, la Russia di Medvedev – che alle fonti energetiche è meno interessata – è infatti la vittima più illustre del nuovo embargo, il Paese che più ha da perdere per il blocco dei commerci. Con il regime del rais, Mosca aveva in piedi commesse militari pluriennali per almeno 4 miliardi di dollari, oltre la metà dei quasi 10 relativi agli affari russi nell’intera area che va dal Nord Africa al Medio Oriente. Così dichiarava con rammarico il 3 marzo Sergei Tchemezov, il presidente dell’azienda pubblica Rostekhnologui, legata a Rosoboronexport, la società statale che gestisce l’export bellico. Il quadruplo del miliardo (sempre su più anni) che vedrebbero sfumare invece le imprese italiane.Il paradosso del conflitto libico è anche questo: nella fase finale del precedente embargo verso Tripoli, durato dal 1988 (anno dell’attentato contro il jumbo della PanAm caduto a Lockerbie) al 2003, molti Stati hanno cercato di riallacciare rapporti con Gheddafi, poi dal 2004 hanno ripreso a rifornirlo di armi. Così, dal 2008 in poi, il valore delle spese militari libiche ha superato la soglia del miliardo di dollari. E in questo quadro l’Italia, pur destinando alla Libia solo il 2% del proprio export militare, ha giocato un ruolo di primo piano: il data-base del Sipri (l’istituto svedese che monitora armi e disarmo) e i rapporti della Ue sulle esportazioni militari certificano che nel biennio 2008/09 l’Italia ha autorizzato operazioni pari a più di un terzo (il 34,5%, per più di 205 milioni) di tutte quelle rilasciate verso la Libia nell’ambito Ue, pari in tutto a circa 595 milioni di euro. E dopo di noi, ma a debita distanza (143 milioni) c’era proprio la Francia, che per giunta proprio nel 2008 ha subìto il sorpasso italiano. Cifre messe nero su bianco, in atti ufficiali e rapporti del governo italiano, anche se il ministro Ignazio La Russa il 25 febbraio affermava che «la Difesa non ha dato neanche un coltellino» alla Libia.Certo, in effetti il grosso riguarda mezzi per usi civili o per la sicurezza in generale. Come i 10 elicotteri AW-109E per il controllo di coste e frontiere venduti dal 2006 al 2009 da Agusta Westlands, del gruppo Finmeccanica (valore: circa 80 milioni), o i 20 velivoli fra cui gli aerei AW-119K, adatti a missioni mediche di emergenza, e i bimotori AW-139. O ancora gli Atr-42Mp dell’Alenia Aeronautica per il pattugliamento marittimo venduti nel 2008, e le 6 motovedette consegnate alla Marina libica per controllare il Mediterraneo e impedire gli sbarchi in Italia.Il Rapporto della presidenza del Consiglio sui commerci dei materiali d’armamento, però, indica fra le 9 autorizzazioni concesse nel 2009 per 111,79 milioni (vedi box), la categoria «004», cioè «bombe, siluri, razzi, missili e accessori», voce che peraltro si ritrova anche per il 2008. Per non dire del caso, ricostruito dalla Rete italiana per il disarmo e dalla Tavola della pace, della "strana" autorizzazione per il cospicuo importo di 79 milioni addebitata nei rapporti Ue al piccolo stato di Malta e che in realtà celerebbe la fornitura da parte di un’azienda italiana di oltre 11mila armi leggere, fra pistole, carabine e fucili, recapitate agli uomini del rais (in realtà la commessa sarebbe stata di 7,9 milioni, ma un banale errore di trascrizione al porto maltese avrebbe spostato la virgola).Una storia, quella delle forniture belliche italiane alla Libia, che «ha una tradizione – ricorda
Maurizio Simoncelli, dell’Istituto Archivio Disarmo – se si pensa che negli anni Settanta, in piena "guerra fredda" e coi consiglieri militari russi a Tripoli, riuscimmo a vendere a Gheddafi una serie di carri armati Leopard, della Oto Melara di La Spezia, in dotazione anche alla Nato; una fornitura che fu a lungo negata e più tardi ammessa dal ministro della Difesa Lagorio». Peraltro, come per la Russia, l’Italia coltivava prospettive ancora migliori per i traffici militari. In particolare, era la Finmeccanica che puntava tramite la diplomazia di Tripoli ad avere «un partner per la futura crescita del gruppo in Africa e nel Medio Oriente», come affermava a luglio 2009 l’ad Pier Francesco Guarguaglini. Un’area che rappresenta un autentico tesoro per i fautori del traffico d’armi, specie nell’area del Golfo, con una domanda sempre in crescita e clienti che non badano troppo al prezzo. Come sanno bene gli Usa che, secondo i dati Sipri, assorbono il 54% del commercio militare di un’area che vede la sola Arabia Saudita spendere (nel 2010) per la difesa la bellezza di 19 miliardi di dollari. Anche qui con il paradosso che nel 2010 gli Usa hanno venduto a Riad ben 84 aerei F-15, ma prima ne hanno dovuto limitare le capacità per non irritare Israele che altrimenti poteva sentirsi minacciata. L’importante è vendere.
LE CIFRE BALLERINE FORNITE DAL GOVERNOIl governo a volte sconfessa se stesso. Capita anche questo, per confondere le acque sulla "bizzarra" partita delle forniture italiane di armi alla Libia. Su questo tema l’Idv, con i deputati Leoluca Orlando e Fabio Evangelisti, ha presentato un’interrogazione in commissione Esteri. A rispondere si presentò, l’8 marzo, il sottosegretario Stefania Craxi. Che, stando al resoconto ufficiale della Camera, affermò che l’export nostrano «ha avuto un andamento fortemente decrescente», passando dai 111 milioni "autorizzati" nel 2009 ai 93 nel 2009, per poi ridursi l’anno scorso a «soli 37 milioni». Peccato che nel Rapporto del Presidente del Consiglio sul commercio di materiale bellico le cifre siano esattamente invertite e, pertanto, in crescita: 93 milioni (93,218 per l’esattezza) nel 2008 e 111,79 nel 2009. Solo una svista? La Craxi sottolineava per di più che «i volumi effettivamente esportati sono stati al di sotto del valore delle autorizzazioni», fermandosi nel triennio a 170 milioni, mentre i restanti 70 milioni sono stati «bloccati con provvedimenti sospensivi, alla luce della crisi in atto». Inoltre, le forniture di elicotteri e velivoli da soli rappresentano «una quota pari all’81% del valore complessivo».