La porta di casa è sempre aperta. Non è solo la metafora con cui don Antonio Polo, 73 anni, missionario salesiano veneziano, ha voluto descrivere, in un libro di memorie, i suoi 41 anni a Salinas. È una semplice constatazione. Al tavolo di cucina, accanto al sacerdote appena guarito da una brutta influenza, c’è un gruppo di ragazzi che organizza l’attività del gruppo parrocchiale. Poi entra Juan: trascina un enorme mazzo di coriandolo. «È straordinario contro la febbre», dice al religioso. Nel frattempo, sono arrivati i bimbi del doposcuola, guidati da una giovane volontaria. «Ora prepariamo la merenda », esclama la ragazza. Don Antonio è abituato a questa allegra confusione. «Non ci faccio più caso. Sono sempre state un oratorio salesiano queste mura…», dice. Il religioso, dalla folta barba bianca e gli occhi vispi, le ha costruite con le sue mani appena arrivato nella comunità. Che allora contava meno di 400 abitanti.
Come si è ritrovato a Salinas?
Studiavo psicologia a Roma. Nel 1970 arrivò monsignor Candido Rada: cercava aiuto per il Fepp. Mi mancava un semestre per la laurea e sognavo di fare il missionario. Quando il mio superiore mi propose di partire, mi dissi: «Perché no? Tanto è solo per quattro mesi». Sono ancora qui: sono il primo, unico e miglior parroco di Salinas (ride).
Che incarico le affidò il vescovo di Guaranda?
Mandò Bepi Tonello e me a Salinas per costruire una piccola casa comunale.
All’epoca, era il 1971, la gente non aveva alcun luogo di riunione. Le decisioni venivano prese nella residenza dei padroni: gli indigeni stavano fuori, ascoltavano e prendevano atto. Monsignor Rada ci incaricò di creare per loro uno spazio di libertà, in cui potessero ritrovarsi per decidere insieme. Voleva che diventassero artefici del loro destino.
Riusciste a completare il lavoro nei quattro mesi stabiliti. Perché siete rimasti, Bepi altri 5 anni prima di trasferirsi a Quito a dirigere il Fepp, e lei tuttora?
Fu la gente a chiedercelo. Capirono che il nostro messaggio di fede vissuta nella pratica poteva essere la via verso la costruzione di un’altra Salinas. In realtà, abbiamo anche imparato sul campo come armonizzare economia e giustizia. Abbiamo commesso errori, li abbiamo corretti, ne abbiamo fatti di nuovi. Per fortuna avevamo una guida preziosa: monsignor Rada. Fu lui a spronarci affinché costituissimo la cassa rurale. E fu sempre lui a capire che, oltre al credito, dovevamo offrire formazione a chi voleva fare impresa.
Qual è l’insegnamento più importante che le ha lasciato monsignor Rada?
Diceva sempre: il Regno di Dio va annunciato e celebrato ma anche costruito. Ogni giorno, con intelligenza, sudore e amore. Quando Bepi edio andavamo a Guaranda, dopo aver percorso a piedi centinaia di chilometri per visitare le comunità, per prima cosa ci preparava il bagno. Poi ci mandava al cinema. «Per lavare corpo e mente », diceva. Lui era così: un uomo pratico, terribilmente umile, straordinariamente grande.
Lucia Capuzzi