Visti da dietro la rete metallica che li separa dal ciglio della strada, disposti in perfetta fila indiana, i mille container attraversati dai lunghi viali come un castro romano, mandano riflessi argentati: l’Ashti camp, un tempo periferia disabitata, da metà maggio è l’approdo sicuro dei profughi di Ankawa Mall. E non solo.Il vecchio cantiere del centro commerciale, dove le 600 famiglie di profughi in gran parte da Qaraqosh, ha passato il primo terribile inverno, si è rimesso in moto. Il proprietario della struttura non ha più rinnovato l’affitto alla Chiesa locale e ha ripreso la costruzione del centro commerciale. Un esodo obbligato, ma per le 600 famiglie cristiane stipate in stanzette con pareti in lamierino costruite in tutta fretta sulle colate di nudo cemento armato, è stata una liberazione. La “Nuova Ninive”, sorta grazie all’impegno della diocesi di Erbil nei sobborghi di Ankawa, è una immensa baraccopoli che raccoglie 1.200 famiglie, tutte quelle di Ankawa Mall più altre giunte da altri centri di raccolta. La “Nuova Ninive” dei mille container offre una accoglienza che può sembrare dignitosa: 27 metri quadri suddivisi in due vani con servizi igienici, acqua corrente ed energie elettrica. Un paradiso, se si pensa a come ancora oggi sopravvivono le molte famiglie nemmeno censite dalle Nazioni Unite che vagano nei sobborghi di Erbil o di Dohuk. Un paradiso di lamiera, che in realtà logora come un tarlo l’animo di chi percorre tutto il giorno i lunghi viali divisori senza una meta.È un corsa a esaurimento, di cui non si intravede la fine, e che stritola, come in una morsa, anche i nervi più saldi: a differenza di tutte le alte crisi – ripetono gli operatori umanitari – che prevedono tempi di rientro e programmi di ricostruzione nell’arco di mesi, al massimo di un paio di anni, qui nessuno può fare previsioni. I vertici internazionali di Vienna, come pure i raid della coalizione, passano troppo sopra il cielo di Ankawa Mall: i profughi come pesci in un acquario, in cerca di speranza come l’acqua in cui sopravvivere.Per questo il logoramento, dopo 15 mesi dalla fuga dalla Piana di Ninive, inizia ad essere incontenibile appena fuori il cancello di ingresso dove dei tornelli, su cui vigilano guardie private, permettono solo il passaggio dei pedoni. Solo un cancello, a segnare l’inizio di quella terra di nessuno dove l’alcolismo è una piaga sociale. Da tempo ormai si registrano anche casi di violenze sessuali su minori e dipendenza patologica dal gioco d’azzardo in bische e chioschi spuntati ovunque come funghi nelle strade adiacenti ai principali centri raccolta. In questi giorni, nelle riunioni di coordinamento fra le Ong presenti e le Nazioni Unite, si inizia a elaborare una risposta anche a questa nuova, per quanto prevedibile emergenza. Prima di tutto si vuole procedere a una stima della popolazione coinvolta nelle diverse forme di devianza, mentre si cercherà di mettere in campo nuove iniziative. L’obiettivo è di risvegliare la «resilienza», la capacità di superare i traumi riuscendo a sfruttare le opportunità positive che ogni situazione offre: è questo respiro di vita il vero elemento mancante nella vita di tutti. La scommessa di ritrovare un sorriso, è la ragione costitutiva dell’“Hope center”. È una macchia di colore e ordine, è un acceleratore di relazioni positive il piccolo asilo di Focsiv inaugurato all’inizio di luglio in mezzo ai mille container: accoglie 120 bambini di cinque anni divisi su due turni. Una goccia nel mare del bisogno. Il via vai di mamme al cambio di turno è una risposta naturale e semplice a un bisogno educativo essenziale: l’aggressività dei piccoli, riferiscono gli insegnanti, dopo qualche mese di scolarizzazione è in calo. Per questo il piccolo asilo, dopo le visite dei dirigenti dell’Unicef, è diventato un modello da replicare dove possibile. Con la scuola elementare che Upp con il contributo della Cooperazione italiana sta costruendo, una famiglia che riceve ancora lo stipendio statale e con bimbi piccoli potrebbe non aver necessità di uscire dal campo. Un ghetto, visto da dentro. Un paradiso, per chi ne è rimasto fuori.Ma basta varcare la rete metallica, per percepire nel caos dei chioschi, negozietti e banchetti, lungo il viale che costeggia le baraccopoli vecchie e nuove, il senso del nulla. Il grande sforzo, nel primo anno, delle agenzie dell’Onu si scontra ora con le ristrettezze di bilancio e la richiesta del governo di Baghdad di estendere gli stessi interventi a tutto l’Iraq e non solo alla regione autonoma del Kurdistan.Difficili equilibri politici, mentre dal deserto dell’Ambar dove si continua a combattere, la fuga della popolazione continua. Kirkuk adesso è la città più sotto pressione anche perché con 400mila sfollati è la terza provincia ad accogliere rifugiati. Da questa estate Focsiv ha aperto un ufficio pure lì. Un po’ di sollievo per le autorità locali allo stremo e su cui ricade al momento tutto l’onere dell’accoglienza. Ma il nome della paura ora è un altro: colera. Più di 1.000 casi accertati a Kirkuk, già due a Erbile e 4 a Dohuk. Intanto ai mille container sempre meno gente chiede «quando torniamo a casa». E ogni giorno qualcuno ad Ankawa 2 allarga di un metro la veranda davanti al cucinotto.