«Ogni giorno mi arrivano da Mogadiscio messaggi drammatici. Situazioni di estrema necessità, aggravate dall’insicurezza per i combattimenti interni. Poche ore fa, al telefono dalla capitale, un mio collaboratore cristiano si diceva affannato a trovare un mezzo per arrivare appena possibile in Kenya o nei campi profughi a Sud dell’Etiopia. Almeno lì non c’è il problema della violenza». Monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico della Somalia, misura ogni giorno da vicino il dramma della carestia («confermo la stima di 11 milioni e mezzo di persone a rischio nel Corno d’Africa»), anche se da tempo non può recarsi a Mogadiscio: «Si rischia di essere sequestrati, e allora sarebbe un altro dramma. Resto in contatto quotidiano con i miei collaboratori, anche musulmani». Francescano di origine padovana, monsignor Bertin risponde da Gibuti, piccola repubblica al 99 per cento musulmana, da dove supporta gli aiuti come referente Caritas per la Somalia: «La realtà più drammatica è il Sud della Somalia: alla calamità naturale s’aggiunge quella che io chiamo la calamità umana, ovvero un conflitto che perdura da almeno vent’anni».
Anche a Gibuti la siccità morde. In che misura?Finora, su una popolazione complessiva di 850mila abitanti, icolpiti sono circa 120mila: si trovano soprattutto nelle zone cosiddette rurali… ma non pensate a campagne coltivate, sono terreni desertici con qualche alberello qua e là. Si tratta di pastori, che tiravano avanti con qualche capretta, i cammelli, qualche bovino.
Lei è stato ultimamente nelle zone più colpite?Ci vado almeno una volta al mese, a celebrare la Messa nelle nostre quattro stazioni missionarie. Girando ora vedo lungo le strade le carcasse dei bovini e dei cammelli morti, mi rendo conto con i miei occhi della drammaticità della situazione.
Cosa significa perdere gli animali per questi uomini ora in fuga verso la capitale?Tutto. Dal cammello, ad esempio, ricavano il latte dal consumo giornaliero. Alimento fondamentale per i pastori.
Rispetto alla Somalia, a Gibuti almeno c’è un’autorità…Senz’altro. Qui il governo ha organizzato gli interventi, ha aperto una sottoscrizione speciale. Agli appelli ora rispondono le agenzie delle Onu le organizzazioni cattoliche e anche alcune realtà umanitarie del mondo arabo mussulmano. I primi sono stati i Paesi più organizzati come Stati Uniti e Francia, che qui a Gibuti hanno anche alcuni basi militari importati.
Torniamo in Somalia, dove in questi ultimi giorni di luglio, oltre ai viveri servirebbero – può sembrare strano – anche tende. Si, ho vissuto lì per anni e so bene che la temperatura in luglio s’abbassa molto. Fa freddo e se ci si mette qualche acquazzone violento, la vita è dura per chi scappa dalla fame.
Monsignor Bertin, perché l’emergenza è stata affrontata in ritardo?Anche in passato è capitato così, purtroppo. Ci si muove solo quando si vede il dramma con gli occhi. Per questo è importante il ruolo dei media. Invece c’è stata anche questa volta una lentezza umana, in parte legata al fatto che in passato certi governi o certe organizzazioni avevano lanciato allarmismi non giustificati.