sabato 24 agosto 2019
Gli incendi stanno devastando quasi 150 terre indigene. Allarme per le tribù non contattate. I vescovi brasiliani: basta deliri, azioni urgenti. In fiamme anche Bolivia e Paraguay
Indigeni in Amazonas, Ansa

Indigeni in Amazonas, Ansa

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«Andarcene? Dove? È la nostra terra, è parte di noi. Lotteremo. Siamo abituati a farlo. Come abbiamo resistito alle invasioni, ora resisteremo al fuoco». Eric, 23 anni, indigeno Karipuna, è uno dei 23 abitanti del villaggio Panorama, sulle rive del fiume Ji-Paraná, affluente del Rio delle Amazzoni. «In realtà, i Karipuna, in totale, siamo 58, ma più della metà vive in città, a Porto Velho, per ragioni di studio o lavoro». Panorama, nel Rondônia, è sulla “linea del fuoco”, come tutta la fascia del Brasile centro-occidentale, devastata da oltre 33mila incendi nell’ultimo mese. Un sesto di questi è avvenuto nello Stato che, inoltre, ha la maggior concentrazione di roghi per chilometro quadrato.

«Ora va un po’ meglio: ieri ha piovuto e le fiamme si sono arrestate. Ma oggi il fuoco potrebbe riprendere ad avanzare. Da soli non possiamo affrontarlo. Chiediamo al mondo di non voltarsi dall’altra parte. Il mio popolo, i Karipuna, ha rischiato di estinguersi per le violenze e le malattie portate dai conquistatori nei secoli passati. Siamo rimasti in 58. Altre tribù sono state cancellate. Lo sterminio prosegue nel presente: i cacciatori di risorse ci considerano un ostacolo. Chiediamo solo di poter continuare a esistere come indigeni. Non lasciate che veniamo ridotti in cenere», dice Eric, con la voce carica di commozione.

Il giovane non parla solo per il suo popolo: gli oltre 900mila indios brasiliani sono a rischio. Secondo gli ultimi dati dell’Instituto socioambiental (Isa), almeno 3.500 roghi stanno devastando 148 terre indigene, concentrate – oltre che in Rondônia –, in Mato Grosso, Tocantins, Acre e Pará. Zone in cui si sono rifugiati anche molte tribù in isolamento volontario. I traumi del passato, cioè, hanno spinto alcuni gruppi nativi a rifiutare il contatto con l’esterno, rintanandosi negli angoli più remoti della foresta. In Brasile, se ne contano un centinaio, secondo la Ong Survival, in prima linea nella difesa dei nativi. Nella terra Karipuna, legalmente restituita agli indios nel 1998, i Karipuna ne hanno individuato due. «Non sappiamo più nulla di loro da quando c’è stata l’ultimo blitz dei trafficanti di legname, due mesi fa. Ora rischiano di restare intrappolati nelle fiamme. Nessuno sa nemmeno che esistono. Per questo, noi Karipuna abbiamo il dovere di levare la voce in difesa dei nostri fratelli isolati. Il governo faccia qualcosa». Anche la Conferenza episcopale brasiliana ha chiesto «azioni urgenti», di fronte agli «assurdi incendi». «Non è il momento di deliri», hanno affermato i vescovi e aggiunto: «È ora di parlare, scegliere e agire con equilibrio e responsabilità, perché tutti si assumano la nobile missione di proteggere l’Amazzonia, rispettando l’ambiente, i popoli autoctorni, di cui siamo fratelli»

Il presidente Jair Bolsonaro, entrato in carica a gennaio, è considerato da più parti come parte del problema per le sue controverse affermazioni sulla necessità di «rendere produttiva» l’Amazzonia. Boutade concretizzate in una serie di proposte – ancora nel limbo – per diminuire le aree protette, consentire l’affitto dei terreni indigeni o aprirli allo sfruttamento minerario. Tale politica – accusano esperti e attivisti – avrebbe spinto i latifondisti a incrementare le “queimadas”: incendi per “pulire” il terreno da parte dei latifondisti e “sgomberarlo” di eventuali residenti. Il 5 agosto, il giornale locale “Novo Progresso”, in Pará, ha diffuso la notizia di un singolare evento organizzato, cinque giorni dopo, dagli agricoltori locali: “il giorno del fuoco”. I grandi proprietari – sostiene il quotidiano – avrebbero esortato a bruciare ampie porzioni di foresta per «dimostrare la propria volontà di lavorare al presidente Jair Bolsonaro».

Informazione verificata o fake news, fatto sta che quel 10 agosto nel municipio di Altamira, in Pará, ci sono stati 431 roghi, altri 327 a Novo Progresso, per un totale di 1.457 incendi in meno di 48 ore. Se una regia unica è improbabile, è verosimile, però, che qua e là sia “scappata la mano”. Deforestazione e siccità avrebbero, poi, favorito la propagazione delle fiamme a tempo di record. Affermazioni smentite dal leader che, invece, ha puntato il dito sulle Ong. Di fronte al coro di critiche internazionali e alla minaccia di ritorsioni economiche – tra cui il congelamento dell’accordo Ue-Mercosur –, Bolsonaro ha schierato 44mila militari sul fronte del fuoco. Poi ha cercato di spegnere le fiamme della polemica con un intervento in diretta tv, in cui ha affermato: «Gli incendi esistono in tutto il mondo. Non possono diventare il pretesto per le sanzioni». In effetti, i roghi devastano anche Bolivia e Paraguay. Anche qui il fuoco non sembra una fatalità. Il presidente di La Paz, Evo Morales, ha abolito, a luglio, il divieto di bruciare i campi per “pulirli”. Asunción ha tra i maggiori indici di deforestazione.

Quest’ultima è cresciuta esponenzialmente anche in Brasile: negli ultimi otto mesi sono andati perduti tremila chilometri quadrati di foresta. Il governo, inoltre, ha tagliato del 24 per cento i fondi all’Istituto brasiliano per l’ambiente (Ibama), braccio operativo del ministero dell’Ambiente. Quest’ultimo ha iniziato a ridurre le operazioni. In parallelo, sono calate le sanzioni per i crimini ecologici in Amazzonia di oltre un terzo. «Risultato: le invasioni sono diventate quotidiane – conclude Eric Karipuna –. I cacciatori di risorse si sentono spalleggiati. E lo sono: continuiamo a denunciare, ma nessuno interviene».

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