giovedì 25 agosto 2011
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Baghad 2003, Tripoli 2011. Otto anni dopo, la testa di un altra statua rotola e viene presa a calci. Lì era Piazza Firdos, erano i marine americani e le forze britanniche a spazzare via Saddam. Qui sono i libici a far tremare la storia, con i loro sponsor occidentali attenti a stare fuori dalla scena. È una differenza non da poco. Ma in Libia, come in Iraq, difficilmente basterà un pomeriggio di festa per interrompere le violenze. Già è iniziata la caccia al dittatore e ai suoi figli , proprio come in Iraq. Nel 2003 il significato dei fatti di Piazza Firdos cambiò velocemente. Tanto che la decapitazione simbolica del tiranno, mentre il Paese iniziava la sua lunga discesa verso il caos, iniziò a sembrare più un momento di tracotanza che la fine effettiva della guerra. Quando, mesi dopo, i figli di Saddam vennero uccisi e Saddam stesso tirato fuori dal suo buco nel terreno di Tikrit, l’ottimismo di Piazza Firdos era stato sostituito da attentati e sequestri.C’è chi è convinto che proprio gli errori iracheni aiuteranno il nuovo governo libico. «Il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) ha ad esempio indicato che non verranno smantellate le forze di sicurezza, come fecero invece le nuove autorità di Baghdad con tragiche conseguenze», dice Farid Adly, giornalista e attivista libico. E si parla molto di unità, del bisogno che i molti clan lavorino insieme. Ma come l’Iraq ha dimostrato, le aspettative sono difficili da realizzare, perché tanti sono i cambiamenti inaspettati che porta con sé l’abbattimento di un dittatore. E in questo momento è proprio lui, il Colonnello, o meglio il suo fantasma, visto che è letteralmente scomparso da giorni, il primo ostacolo con cui la Libia deve confrontarsi.Dove si nasconde Gheddafi? Pensa davvero di fuggire all’estero o si nasconde per poi lanciare la sua contro-rivolta a suon di guerriglia e attentati? Se così fosse, molti analisti ritengono che possa essere diretto a Sirte, non solo la sua città natale, ma anche uno dei suoi più importanti bastioni. Il Colonnello l’ha trasformata da piccolo villaggio a seconda capitale del Paese, con infrastrutture moderne e dipartimenti governativi, diffondendo denaro per conquistare lealtà tra i clan locali. Da Sirte partono arterie stradali che, attraversando gli impianti petroliferi libici, corrono a sud verso Sebha, capitale storica del Fezzan, luogo di provenienza della tribù del rais, i Qadhadfa. È da questa città-oasi, ancora fedele al Colonnello, che il rais ha fatto confluire armi e mercenari dall’Africa sub-sahariana. Se Gheddafi proverà a riemergere, potrebbe farlo proprio da Sirte o da Sebha, e i ribelli scoprirebbero che anche se Tripoli è caduta la guerra non è ancora finita.Non solo il rais potrebbe disporre di mujaheddin pronti a combattere per lui, ma non esiterebbe a finanziare quella vasta fetta di popolazione povera per realizzare atti di sabotaggio, oltre a provare a incitare le tribù locali alla violenza nel tentativo di rendere il Paese ingovernabile. Senza contare che un Colonnello disperato potrebbe anche arrivare a formare alleanze con estremisti islamici, come suo figlio Saif al-Islam ha minacciato diverse settimane fa. Gli stessi figli potrebbero essere utilizzati – come fece Saddam con Uday e Qusay – per condurre i combattimenti. Certo è che, come ammettono i ribelli, c’è un tratto che con­traddistingue Gheddafi da tutti gli altri uo­mini forti della regione: non sa cos’è la pau­ra, ed è per questo che molti libici lo temo­no ancora. L’altro grande problema che la Libia si tro­verà ad affrontare, proprio come accadde in Iraq nel 2003, sono le sue divisioni interne. Divisioni e differenze che si riverberano nel­lo stesso Cnt, composto da membri di di­versa estrazione, dai laici agli islamisti, da­gli occidentali agli orientali, dai socialisti a­gli uomini d’affari fino ai nazionalisti arabi. «Non c’è un solo leader ribelle che sia ri­spettato da tutti», conferma Kamran Bokha­ri, direttore per il Medio Oriente della com­pagnia di intelligence Stratfor. Manca, in­somma, una figura unificante e una vera e propria catena di comando. Le tensioni tra storici oppositori di Gheddafi e suoi ex so­stenitori poi passati tra i ribelli potrebbero minare gli sforzi per la scelta della leader­ship. Se prevarrà la linea dura, l’errore fat­to in Iraq con le purghe contro gli ex baathi­sti rischia di ripetersi e tradursi in un vuo­to di potere e in nuove tensioni. E dunque, quante chance ha la riconcilia­zione? Americani ed europei hanno lavo­rato per settimane dietro le quinte per in­coraggiare la coesione tra i ribelli ed evita­re la deriva settaria in stile iracheno. L’Am­ministrazione Obama e i suoi alleati hanno supervisionato la bozza di una «road map di transizione» con l’obiettivo di creare un’autorità governativa ad interim che prenda il posto del regime. «C’è stata mol­ta enfasi sulla pianificazione del post-Ghed­dafi. Non è strettamente collegato a quan­to avvenne nel 2003, ma certo avevamo in mente gli eventi i­racheni », ammet­te un alto funzio­nario americano. «Dall’Iraq, sappia­mo che i primi giorni, mesi e set­timane sono la chiave per qualsia­si stabilità a lungo termine – sottoli­nea Daniel Korski, senior fellow al Consiglio Europeo per le relazioni stranie­re – L’Occidente deve sostenere una transi­zione ordinata e rendere chiaro ai ribelli che devono adottare quegli standard che Ghed­dafi non ha mai mantenuto». Il rischio del caos, viceversa, è dietro l’an­golo. Unità e riconciliazione contro poten­ziali guerriglie e rivalità interne. Non si glo­rino «coloro che frettolosamente hanno già cantato vittoria, come già fecero altri in I­raq », ammonisce il quotidiano governati­vo siriano al-Thawra. L’ex regime sembra dissolto, il Colonnello alla macchia. Ma la ricostruzione di un nuovo Paese potrebbe non essere semplice in una terra ricolma di armi e di uomini che hanno imparato co­me il potere possa essere conquistato pre­mendo il grilletto.
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