Baghad 2003, Tripoli 2011. Otto anni dopo, la testa di un altra statua rotola e viene presa a calci. Lì era Piazza Firdos, erano i marine americani e le forze britanniche a spazzare via Saddam. Qui sono i libici a far tremare la storia, con i loro sponsor occidentali attenti a stare fuori dalla scena. È una differenza non da poco. Ma in Libia, come in Iraq, difficilmente basterà un pomeriggio di festa per interrompere le violenze. Già è iniziata la caccia al dittatore e ai suoi figli , proprio come in Iraq. Nel 2003 il significato dei fatti di Piazza Firdos cambiò velocemente. Tanto che la decapitazione simbolica del tiranno, mentre il Paese iniziava la sua lunga discesa verso il caos, iniziò a sembrare più un momento di tracotanza che la fine effettiva della guerra. Quando, mesi dopo, i figli di Saddam vennero uccisi e Saddam stesso tirato fuori dal suo buco nel terreno di Tikrit, l’ottimismo di Piazza Firdos era stato sostituito da attentati e sequestri.C’è chi è convinto che proprio gli errori iracheni aiuteranno il nuovo governo libico. «Il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) ha ad esempio indicato che non verranno smantellate le forze di sicurezza, come fecero invece le nuove autorità di Baghdad con tragiche conseguenze», dice Farid Adly, giornalista e attivista libico. E si parla molto di unità, del bisogno che i molti clan lavorino insieme. Ma come l’Iraq ha dimostrato, le aspettative sono difficili da realizzare, perché tanti sono i cambiamenti inaspettati che porta con sé l’abbattimento di un dittatore. E in questo momento è proprio lui, il Colonnello, o meglio il suo fantasma, visto che è letteralmente scomparso da giorni, il primo ostacolo con cui la Libia deve confrontarsi.Dove si nasconde Gheddafi? Pensa davvero di fuggire all’estero o si nasconde per poi lanciare la sua contro-rivolta a suon di guerriglia e attentati? Se così fosse, molti analisti ritengono che possa essere diretto a Sirte, non solo la sua città natale, ma anche uno dei suoi più importanti bastioni. Il Colonnello l’ha trasformata da piccolo villaggio a seconda capitale del Paese, con infrastrutture moderne e dipartimenti governativi, diffondendo denaro per conquistare lealtà tra i clan locali. Da Sirte partono arterie stradali che, attraversando gli impianti petroliferi libici, corrono a sud verso Sebha, capitale storica del Fezzan, luogo di provenienza della tribù del rais, i Qadhadfa. È da questa città-oasi, ancora fedele al Colonnello, che il rais ha fatto confluire armi e mercenari dall’Africa sub-sahariana. Se Gheddafi proverà a riemergere, potrebbe farlo proprio da Sirte o da Sebha, e i ribelli scoprirebbero che anche se Tripoli è caduta la guerra non è ancora finita.Non solo il rais potrebbe disporre di mujaheddin pronti a combattere per lui, ma non esiterebbe a finanziare quella vasta fetta di popolazione povera per realizzare atti di sabotaggio, oltre a provare a incitare le tribù locali alla violenza nel tentativo di rendere il Paese ingovernabile. Senza contare che un Colonnello disperato potrebbe anche arrivare a formare alleanze con estremisti islamici, come suo figlio Saif al-Islam ha minacciato diverse settimane fa. Gli stessi figli potrebbero essere utilizzati – come fece Saddam con Uday e Qusay – per condurre i combattimenti. Certo è che, come ammettono i ribelli, c’è un tratto che contraddistingue Gheddafi da tutti gli altri uomini forti della regione: non sa cos’è la paura, ed è per questo che molti libici lo temono ancora. L’altro grande problema che la Libia si troverà ad affrontare, proprio come accadde in Iraq nel 2003, sono le sue divisioni interne. Divisioni e differenze che si riverberano nello stesso Cnt, composto da membri di diversa estrazione, dai laici agli islamisti, dagli occidentali agli orientali, dai socialisti agli uomini d’affari fino ai nazionalisti arabi. «Non c’è un solo leader ribelle che sia rispettato da tutti», conferma Kamran Bokhari, direttore per il Medio Oriente della compagnia di intelligence Stratfor. Manca, insomma, una figura unificante e una vera e propria catena di comando. Le tensioni tra storici oppositori di Gheddafi e suoi ex sostenitori poi passati tra i ribelli potrebbero minare gli sforzi per la scelta della leadership. Se prevarrà la linea dura, l’errore fatto in Iraq con le purghe contro gli ex baathisti rischia di ripetersi e tradursi in un vuoto di potere e in nuove tensioni. E dunque, quante chance ha la riconciliazione? Americani ed europei hanno lavorato per settimane dietro le quinte per incoraggiare la coesione tra i ribelli ed evitare la deriva settaria in stile iracheno. L’Amministrazione Obama e i suoi alleati hanno supervisionato la bozza di una «road map di transizione» con l’obiettivo di creare un’autorità governativa ad interim che prenda il posto del regime. «C’è stata molta enfasi sulla pianificazione del post-Gheddafi. Non è strettamente collegato a quanto avvenne nel 2003, ma certo avevamo in mente gli eventi iracheni », ammette un alto funzionario americano. «Dall’Iraq, sappiamo che i primi giorni, mesi e settimane sono la chiave per qualsiasi stabilità a lungo termine – sottolinea Daniel Korski, senior fellow al Consiglio Europeo per le relazioni straniere – L’Occidente deve sostenere una transizione ordinata e rendere chiaro ai ribelli che devono adottare quegli standard che Gheddafi non ha mai mantenuto». Il rischio del caos, viceversa, è dietro l’angolo. Unità e riconciliazione contro potenziali guerriglie e rivalità interne. Non si glorino «coloro che frettolosamente hanno già cantato vittoria, come già fecero altri in Iraq », ammonisce il quotidiano governativo siriano al-Thawra. L’ex regime sembra dissolto, il Colonnello alla macchia. Ma la ricostruzione di un nuovo Paese potrebbe non essere semplice in una terra ricolma di armi e di uomini che hanno imparato come il potere possa essere conquistato premendo il grilletto.