venerdì 7 marzo 2014
Don Zerai: stupri, soprusi e violenze per chi finisce nelle mani dei predoni.
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A Sud di Lampedusa si addensano nubi. Ogni mese continuano a fuggire dall’Eritrea tremila giovani disperati per evitare dittatura e servizio militare a vita. Ma per farlo devono mettersi nelle mani di spietati trafficanti spesso in divisa. Chi varca il confine in Sudan – il traffico è controllato dagli eserciti dell’Asmara e di Khartoum, come l’Onu ha ribadito – puntando verso la Libia spesso viene rapito nei deserti del Sahara e del Sinai ed entra in un inferno dove la vita umana ha un prezzo alto.Le rotte della nuova schiavitù e la tragedia degli eritrei sono state presentate ieri a Roma alla Radio Vaticana in una conferenza moderata da padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa della Santa Sede, con testimoni quali don Mosè Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia e punto di riferimento di chi finisce nei viaggi della disperazione; Alganesh Fessaha, coraggiosa presidente dell’Ong Gandhi; da suor Azezet Fidane, la missionaria comboniana che aiuta le donne eritree a Tel Aviv; e José Angel Oropeza, direttore dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni per il Mediterraneo.Il Sinai, con 30 mila sequestri dal 2009 ad oggi che hanno fruttato 600 milioni di dollari – vicenda seguita da Avvenire fin dagli inizi e che ora, dopo i bombardamenti delle forze di sicurezza cairote ospita pochi prigionieri –  non è l’unica tragedia di questo popolo. C’è il Mediterraneo. Per Oropeza siamo in un picco del flusso dall’Africa.«Nel 2013 sono sbarcate 45 mila persone tra Italia e Malta grazie al racket di trafficanti. Il barcone affondato a Lampedusa lo scorso 3 ottobre ha fruttato un milione di euro».  Intanto le salme delle 361 vittime di Lampedusa, perlopiù eritrei, cinque mesi dopo non sono state restituite ai familiari. «Ne abbiamo chiesto più volte il rimpatrio – sottolinea don Zerai – sappiamo che Roma ha deciso di restituirle a chi fa richiesta dopo la prova del Dna. Ma per farla serve la collaborazione dell’Asmara e per ora è tutto fermo». Il traffico dall’Eritrea passa il Sudan e si dirige verso la Libia, dove i centri di detenzione, pagati dall’Ue, sono pieni di eritrei detenuti. «Non conosciamo i contenuti dell’accordo tra Italia e Libia – accusa il prete dei rifugiati – ma nulla è cambiato dai tempi di Gheddafi. Vengono chiusi in celle sovraffollate dalle quali si esce corrompendo i carcerieri con 1.000 dollari. C’è una novità, i profughi vengono rapiti e tenuti in ostaggio nel triangolo tra Libia, Sudan e Ciad». Chi non paga 10 mila dollari viene venduto ai predoni nel Sinai. «Dove le donne vengono stuprate, dove gli ostaggi vengono torurati, percossi, bruciati per estorcere riscatti fino a 40 mila dollari alle famiglie». Lo ha testimoniato Alganesh Fessaha, che ha rischiato più volte la vita per salvare 550 persone, senza pagare riscatti dalle grinfie dei predoni, grazie all’aiuto di uno sceicco salafita di Rafah e ne ha portate 2.200 in Etiopia prelevandole dalle carceri egiziane. La vincitrice dell’Ambrogino d’oro ha proiettato le foto scattate ai prigionieri liberati. Corpi straziati e scheletriti come quelli delle vittime dei lager nazisti. Infine suor Azezet Kidane, comboniana di origine eritrea, impegnata a Tel Aviv ad aiutare chi arriva in Israele. È lei che per prima ha confermato traducendo i racconti ascoltati nella clinica di Phr a Jaffa gli orrori vissuti dagli eritrei nel Sinai. «Non credevo a quello che sentivo, né a quello che vedevo con i miei occhi», dice riferendosi a chi sopravvive ai viaggi della disperazione e che oggi teme di venire imprigionato e rimpatriato per la stretta sull’immigrazione del governo. «Lavorano come schiavi – denuncia Azezet – per comprare i documenti dei Falasha, gli ebrei etiopi». Oppure. pagano 7.000 dollari ai trafficanti per raggiungere Australia e Europa dall’Asia. E poi vengono abbandonati in Vietnam, Indonesia, Thailandia Chi sopravvive all’odissea nel deserto o in mare e ha ottenuto asilo non ha finito di soffrire. Ci pensa la burocrazia al resto. «Nelle ambasciate italiane in Etiopia e Sudan – conclude don Zerai –, giacciono centinaia di domande di ricongiungimento famigliare di profughi eritrei che vivono nel nostro Paese e hanno ottenuto il nulla osta del Viminale. Ma è difficile ottenere i documenti. Grazie all’Acnur siamo riusciti a sbloccare molti casi, ma non in Etiopia dove quasi 700 richieste sono inevase e in scadenza».Don Mosè chiede che l’Europa apra il suo cuore e le sue porte al popolo in fuga dall’Eritrea. Ma è  tempo che soprattutto l’Italia si assuma le sue responsabilità storiche e morali.
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