sabato 3 luglio 2021
I miliziani hanno raddoppiato i distretti che controllano direttamente, imponendo di fatto un governo parallelo. E il Paese rischia l'implosione
Soldati afghani ad Herat

Soldati afghani ad Herat - Ansa

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È la cronaca di una disfatta annunciata. Il governo di Kabul ha i giorni contati. I taleban stanno dilagando nel nord del Paese. Hanno messo a ferro e fuoco le province di Badakhshan e Baghlan, dove, nella notte di venerdì scorso, hanno ucciso 23 militari. Sono pronti a ghermire la città di Faizabad. Anche Kunduz potrebbe presto capitolare. Fatto grave, gli insorti hanno conquistato due distretti della provincia di Kapisa. La capitale dista da lì solo 65 chilometri. A difenderla non restano che le gole montuose all’altezza di Mahipar. Il destino appare segnato. I taleban potrebbero addirittura aggirare l’ostacolo marciando a nord, verso Bagram, per poi ripiombare a sud, direttamente su Kabul.
La strategia americana del ritiro accelerato è un boomerang inarrestabile. Dal primo maggio ad oggi, i taleban hanno raddoppiato i distretti che controllano direttamente, imponendo un governo parallelo. Allora ne “amministravano” 73 su 407, oggi ne hanno in pugno oltre 160 e ne stanno per conquistare altri 157. A capitolare sono interi settori. Disertano perfino i famosi commando, addestrati con vanto dagli americani. Decine di poliziotti e soldati abbandonano gli avamposti e i materiali forniti dagli americani. Dalla Kapisa arrivano video allarmanti. Mostrano uomini in divisa passare armi in pugno dalla parte degli insorti. È l’8 settembre dell’esercito afghano. La Casa Bianca ha messo una pietra tombale su vent’anni di operazioni, la settimana scorsa. Jen Psaki, segretaria alla stampa della Presidenza, ha dichiarato laconicamente che la «guerra non si poteva vincere». Meglio quindi abbandonare gli afghani al loro destino e lasciare loro il compito di sbrogliare la matassa etnico-religiosa e terroristica che sarà ormai fatale al regime in carica. La nuova consegna per gli occidentali è semplice: bisogna ripiegare dall’Afghanistan ordinatamente e senza subire nuove perdite. La litania del ripiegamento, sembra accompagnarsi alla dirompenza della prima linea. I governativi, lasciati da soli a combattere, sono riusciti a riconquistare solo 12 distretti dell’ottantina persa da maggio ad oggi. Nessuna delle riconquiste è di importanza strategica. I regolari hanno ceduto, senza opporre resistenza, l’area di Imam Sahib che controlla il punto di frontiera con il Tagikistan e ospita un porto fluviale. Da lì, ogni giorno, arrivavano milioni di dollari di tasse. Un altro colpo per le speranze di tenuta. Kabul si spopola. I soldati britannici stanno per partire.
Anche la gigantesca base di Bagram, per 20 anni epicentro della guerra ai taleban, è stata evacuata, ormai trasferita ai militari afghani. Non ci sono più presidi. Mentre il presidente Joe Biden si affanna a ripetere che «il ritiro è in corso ma non finirà nei prossimi giorni», accennando alla data simbolica del 4 luglio alla quale si aggrappano parecchie simbologie. Anche il generale Kenneth McKenzie, numero uno del Comando centrale, lascia aperto uno spiraglio: combattere al-Qaeda e la branca afghano-pachistana del Daesh partendo da basi di appoggio nei Paesi limitrofi all’Afghanistan. Il Pakistan ha ribadito ieri di non essere disponibile. Orbita nella sfera d’influenza cinese e non è in buoni rapporti con Washington. Il Tagikistan ospita basi e forze russe. L’Uzbekistan si era prestato in passato, cedendo la base di Karshi-Khanabad agli Usa. Ma dopo i disordini di Andijian e le critiche americane, l’accordo è saltato. Rimarrebbe il Turkmenistan, neutrale e propenso a buoni rapporti con l’Iran. Perso l’Afghanistan, sarà difficile contrastare il jihad multiforme che lo caratterizza.
Senza uomini sul campo, non avremo più intelligence accurata. William Burns, direttore della Cia, ha poche speranze: «La capacità di contrastare le minacce si ridurrà». L’Afghanistan rischia di implodere. Manca di futuro. Un dato lo testimonia: 224mila ettari di terreni sono tappezzati di oppio, in aumento del 37% nel giro di un anno. Segno che il Paese sta tornando ad essere un narco-Stato, soprattutto nelle aree del sud-ovest, che producono il 71% del totale. Preoccupano le cifre. Il numero delle province in cui la coltivazione della droga era stata eradicata è in calo. Ne rimangono libere solo 12. La provincia di Kapisa, ormai fuori controllo, ha perso quest’anno il suo status di area franca. L’oppio ha ripreso quota. Frutta poco ai contadini: 55 dollari al chilo. Con le 6.300 tonnellate prodotte nel 2020, il guadagno è stato di 350 milioni dollari che, quando entrano nei circuiti illegali dell’eroina, si moltiplicano in miliardi. Guadagni per i signori della guerra locali, per i funzionari corrotti e per gli insorti islamisti.

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