venerdì 16 maggio 2014
​Nel 2006 rischiò la pena di morte dopo la conversione: fu salvato da una rapida azione internazionale che vide l'Italia in prima fila.
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Con lui ce l’abbiamo fatta. Tutti insieme: americani,  europei, l’Italia, il Vaticano. Nel 2006 una mobilitazione inter­nazionale senza precedenti ha tira­to giù dal patibolo Abdul Rahman, l’afghano convertito dall’islam al cristianesimo e che per questo ha rischiato la condanna a morte per apostasia.  Aveva 41 anni, allora. Molti dei qua­li (16) trascorsi in Pakistan, lavo­rando come infermiere per un’as­sociazione cristiana di assistenza ai profughi. In Pakistan si era conver­tito, poi aveva deciso di trasferirsi per un periodo in Germania, quin­di di rientrare in patria, nel 2002: in un Afghanistan liberato dai taleban ma non dal pregiudizio. Se n’era ac­corto presto, Abdul Rahman. Ave­va avviato un procedimento per l’affidamento delle figlie, e proprio durante un’udienza, nel febbraio 2006, il suocero lo accusò di apo­stasia. «Ha tradito l’islam, tiene in casa una Bibbia», disse. Persino il padre lo ripudiò: «Mio figlio è mor­to. È una vergogna per la famiglia». Il 19 marzo la polizia andò a pren­derlo a casa per portarlo in carce­re. In base all’articolo 3 della Costi­tuzione afghana del 2004 (che rico­nosce il primato della legge corani­ca), rischiava la pena capitale. Ac­cadde qualcosa, però. Perché la no­tizia cominciò a circolare in quel­l’Occidente che stava con i piedi ben piantati in Afghanistan: quelli di migliaia di soldati impegnati nel­la stabilizzazione del Paese. Da Wa­shington, Roma, Berlino, Ottawa partirono i messaggi diretti al pre­sidente Hamid Karzai affinché im­pedisse l’esecuzione di quella sentenza assurda, incompati­bile con il rispetto dei diritti umani e con la ragionevolezza. La campagna di mobi­litazione culminò con l’intervento di papa Benedetto XVI, che scrisse una lettera al presiden­te afghano. Karzai per qualche gior­no nicchiò, strappato tra l’esigenza di accontentare gli alleati e quella di rispondere a una tradizione antica. Poi si mosse. Fu trovato un esca­motage: Abdul Rahman venne giu­dicato  «mentamente incapace di sostenere un processo». Il 29 mar­zo venne liberato. E, grazie al par­ticolare impegno della Farnesina, fu accolto in Italia come rifugiato politico, «perché perseguitato per motivi religiosi». Da otto anni Abdul Rahman vive nel nostro Paese, in un luogo super­protetto. Quei dieci, interminabili, giorni del 2006 gli hanno restituito la vita. E hanno restituito al mondo il senso di quel che va fatto, quan­do  si deve.
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