Le dure leggi coraniche, certo. Ma ci sono anche ragioni umane, troppo umane, dietro l’inchiesta che ha portato nei mesi scorsi all’arresto di Meriam Ibrahim, la 27enne cristiana condannata a morte per apostasia e adulterio in Sudan. Sono state la gelosia e l’avidità di un fratellastro e di una sorellastra – che Meriam non aveva visto per anni – ad accendere la miccia della denuncia nei confronti della donna, incinta di otto mesi e rinchiusa in un carcere di Khartum insieme al figlio Martin di 20 mesi. L’obiettivo dei due familiari era quello di impossessarsi delle redditizie attività commerciali di cui Meriam è proprietaria, ha accusato l’avvocato della donna. La novità è filtrata attraverso Justice Centre Sudan, organizzazione non profit che si sta facendo carico delle spese legali di Meriam. Un portavoce ha sottolineato: «Crediamo che i familiari abbiano presentato la denuncia perché vogliono prendere il controllo dei suoi affari. Se Meriam resta in prigione potrebbe perdere tutto e i parenti sarebbero i primi a beneficiarne». Stessa cosa, secondo l’organizzazione, accadrebbe se Meriam fosse forzata a lasciare il Sudan.Nei giorni scorsi Daniel Wani, marito di Meriam, è giunto a Khartum dagli Stati Uniti, dove risiede. Daniel è cittadino americano: si è infatti stabilito nel New Hampshire da tempo, dopo essere scappato dal Sud Sudan. Daniel, costretto su una sedia a rotelle, ha visitato in carcere la moglie e il figlio Martin di 20 mesi, trovandoli in difficili condizioni, lei incatenata alle caviglie. Rischia di partorire così: la scadenza è il primo giugno. Alcune immagini ritraggono l’uomo con Martin sulle gambe, sotto l’occhio attento di una guardia armata. A Daniel è stato anche negato l’affidamento del figlio perché, essendo lui cristiano e la moglie musulmana (solo per la sharia che l’ha condannata, in quanto figlia di musulmano), Martin è ritenuto figlio illegittimo. Per l’uomo si è trattato della prima visita alla moglie dall’arresto.Second Justice Centre Sudan, «quando il padre lasciò la madre di Meriam lei aveva sei anni. L’uomo si trasferì in un’altra zona del Sudan e formò una nuova famiglia. Meriam non lo sapeva, così come non ha saputo della morte del padre per molti anni né che fosse musulmano. La madre di Meriam è morta nel 2012 e fino a quel punto lei non aveva mai avuto notizie di fratellastri o sorellastre. L’altra famiglia di Meriam non voleva rapporti con lei». Negli ultimi anni, però, Meriam ha iniziato un business di successo a Khartum: si tratta di un negozio di prodotti originari dell’Etiopia, il Paese della madre, posizionato in un centro commerciale. «L’attività va molto bene, il business è cresciuto: il fratellastro e la sorellastra devono averne sentito parlare. La prima volta che Meriam ha saputo di loro è stato quando hanno presentato la denuncia contro di lei. È stata arrestata e messa in prigione senza alcun preavviso». Insomma, con Meriam fuori gioco, devono aver pensato i fratellastri, l’attività sarebbe potuta cadere nelle loro mani.Nel frattempo continua la campagna di mobilitazione a favore della donna. Negli Stati Uniti due senatori – Kelly Ayotte del New Hampshire e Roy Blunt del Missouri – hanno inviato al segretario di Stato John Kerry una lettera per chiedergli di intervenire personalmente a favore della donna. «Esistono ancora ragionevoli possibilità di revisione» della sentenza, basate sull’azione degli avvocati della difesa di Meriam, scrive in una nota – di cui Avvenire ha avuto copia tramite “Italians for Darfur” –, l’ambasciata sudanese in Italia.La rappresentanza diplomatica sottolinea anche che il verdetto della corte di prima istanza «sarà reso esecutivo solo dopo che saranno esaurite tutte le possibilità di appello disponibili, che comprendono la Corte d’appello, la Corte suprema e, se necessario, la Corte costituzionale». In ogni caso, la sentenza contro Meriam – che ha detto no al giudice che le intimava di abiurare il cristianesimo – «ha sollevato un dibattito serio e intenso in Sudan circa l’applicabilità dei reati di apostasia e adulterio nel caso in oggetto». Nella nota l’ambasciata sottolinea peraltro che «il sistema giudiziario è indipendente da qualsiasi forma di influenza o di interferenza da parte del governo del Sudan o altri soggetti». Entro fine giugno è attesa la data di un nuovo processo.Nei giorni scorsi, Italians for Darfur ha inviato una lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, insieme ai missionari salesiani di El Obeid, Articolo 21, l’ex inviato Onu in Sudan, Mukesh Kapila, e i rifugiati sudanesi in Italia, chiedendo pressioni sulle autorità sudanesi per il rilascio della donna.
Il legale: puntano alla sue attività. VAI AL DOSSIER
AIUTACI A SALVARLA scrivi qui sul sito o su Twitter con #meriamdevevivere o a meriamdevevivere@avvenire.it
© Riproduzione riservata