lunedì 24 giugno 2024
L'educazione di genere arriva alla Facoltà teologica del Triveneto. La teologa Marzia Ceschia e la psicologa Michela Simonetto spiegano perché la Chiesa deve parlare di violenza e prevenzione
Violenza di genere, la parola alla teologia
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Lo studio della violenza di genere entra in una facoltà teologica. L’analisi del problema sarà al centro del corso universitario proposto da Marzia Ceschia e Michela Simonetto alla Facoltà teologico del Triveneto e punta ad offrire un quadro generale sulle principali teorie dello sviluppo psicoaffettivo, con alcuni percorsi di lettura sull’educazione di genere e sulle dinamiche che innescano la violenza. La tematica verrà affrontata da una prospettiva psicologica, pedagogica, sociologica con affondi biblici e teologico-spirituali. Verranno affrontate anche alcune possibili strategie per la prevenzione della violenza di genere nei vari contesti educativi, con un coinvolgimento attivo da parte degli studenti. Marzia Ceschia è docente di teologia spirituale. Michela Simonetto, psicologa, ha una laurea magistrale all’Istituto superiore di scienze religiose di Padova.

Perché l’educazione affettiva può essere un antidoto alla violenza di genere?

Ceschia: Credo che sia indubbiamente importante essere educati alla consapevolezza della propria affettività, a prendere atto del mondo di storie personali che negli affetti si muove per imparare a gestirli, non a esserne travolti. L’intelligenza degli affetti è un argine all’esplosione violenta degli stessi ma anche alla loro manipolazione.

Simonetto: L’educazione affettiva non solo può essere un antidoto, ma è, a mio avviso, l’unico strumento che abbiamo a disposizione per contrastare la violenza di genere (e tutte le altre manifestazioni della violenza, come per esempio il bullismo). Gran parte dei ragazzi e delle ragazze si trovano a vivere le loro prime relazioni affettive e amorose avendo alle spalle un deserto educativo e questo perché, nella formazione dei bambini e dei ragazzi, si tende a privilegiare la dimensione del sapere e del saper fare trascurando, spesso, quella del saper essere. Fondamentale, invece, è allenare a quelle competenze o abilità che rendono gli individui capaci di affrontare la vita e di saper abitare in modo competente la propria affettività e sessualità.

La prevenzione alla violenza di genere non deve tradursi, come spesso è accaduto, nell’insegnare a saper riconoscere o saper difendersi da un aggressore, ma insegnare a costruire una relazione affettiva che sia basata sulla condivisione, sul rispetto, sulla promozione delle diversità sulla capacità di “sentire” l’altro.

Quale agenzia educativa (famiglia, scuola, parrocchia, gruppo sportivo) ha potenzialmente gli strumenti più efficaci per educare all’affettività?

Ceschia: Sono dell’opinione che non sia questione di una sola agenzia educativa, ma che sia fondamentale la sinergia tra i diversi spazi educativi. Certamente la famiglia è il luogo originario degli affetti, ma è fondamentale l’interazione, il dialogo e il supporto tra istituzioni, che ci siano spazi e tempi in cui questo avvenga. A educare si impara educandosi, lasciandosi educare ed educando, interessandosi dei mondi con i quali ogni persona entra in contatto e ascoltandoli, cercando di coglierne i linguaggi e i messaggi.

Simonetto: La famiglia indubbiamente è il primo contesto in cui il bambino si sperimenta nelle relazioni e incorpora quelle forme relazionali che da adulti gli permetteranno di instaurare rapporti più o meno appaganti. Dalla famiglia, o comunque dalle figure significative, vengono tramandati gli universi di senso e tutto il bagaglio di codici e significati che strutturano il modo di stare in relazione. Questo significa che noi fondamentalmente impariamo l’amore da chi vediamo amare o non amare mentre cresciamo. Ma sarebbe sbagliatissimo pensare che l’educazione affettiva ed emotiva spetti solo alla famiglia. Tutte le realtà formative che hanno a che fare con il mondo giovanile devono sentirsi chiamate in causa ed essere attente e impegnate nella crescita e nella promozione del benessere delle nuove generazioni, proponendo occasioni di conoscenza di sé e delle proprie capacità e percorsi in cui poter fare esperienza e interrogarsi sulle diverse modalità relazionali. È necessario stabilire un patto educativo, in cui tutte le agenzie educative, la scuola, ma anche le associazioni sportive, gli enti locali, le parrocchie si sentano coinvolte e diano il loro contributo, accettando la sfida e sentendo l’urgenza di farsi testimoni di relazioni sane.

Se tanti decenni di femminismo non sono riusciti a cancellare gli effetti peggiori del maschilismo-patriarcato, cosa ci può far sperare che in futuro i rapporti tra i generi possano davvero viaggiare su un piano di rispettosa reciprocità?

Ceschia: Penso che uno dei nodi fondamentali sia la cura della comunicazione e una coscienza sempre più vigile sul fatto che le parole diventano fatti e mentalità. C’è ancora molto da fare a questo livello: l’impressionante scia di femminicidi di cui continuiamo ad avere notizia lo dimostra. Diffondere una cura della comunicazione affettiva, un’attenzione a sradicare linguaggi e stili possessivi, oppressivi, svalutanti e discriminanti è una sfida, ma qualcosa si sta muovendo. Mi nasce una riflessione a riguardo: in occasione di uno dei recenti casi di uccisione di una donna da parte del compagno che non accettava la fine della relazione mi è capitato di leggere su un giornale che lui “aveva subito” da parte di lei ripetuti rifiuti a tornare sui propri passi. È ben diverso affermare che lui “non accettava” dal dire che “aveva subito”…In quest’ultima espressione a mio parere si nasconde una valutazione insidiosa, quasi un tentativo di giustificazione…Le parole sono importanti.

Simonetto: Credo che vada riconosciuto innanzitutto che la questione delle pari opportunità non sia mai stata davvero messa al centro delle azioni e dei piani di ricerca e di intervento dei vari governi, e che solo la recente escalation di episodi di violenza nei confronti delle donne abbia davvero permesso di accendere il dibattito e puntare i riflettori sulle disuguaglianze di genere. C’è ancora molta strada davanti e ritengo che sia fondamentale partire da una presa di coscienza condivisa, che permetta di superare le ipocrisie e le contraddizioni. Ma è necessario che ci sia il coinvolgimento e un reale interesse di tutte le istituzioni civili e sociali.

Qualcuno sostiene che la parità tra maschile e femminile può diventare un grosso rischio per il valore della differenza proponendo un’equazione che dice, in sintesi, più parità meno differenza, quindi più confusione, più spazio per la “cultura gender”. Siete d’accordo?

Ceschia: Parità non significa omologazione. Personalmente preferisco utilizzare il termine reciprocità. “Parità” mi sembra ancora una forma di giustapposizione, “reciprocità” invece mi sembra un termine più adeguato a pensare un dare e un ricevere di entrambe le parti in gioco. La differenza è tutelata proprio da questo scambio. Non è sufficiente mettere sullo stesso piano, ma è necessario creare le condizioni perché ciascuna e ciascuno possa esprimere se stesso e se stessa.

Simonetto: Affermazioni come queste hanno a mio avviso molto a che fare con la paura del cambiamento, ed è proprio per questo motivo che l’educazione gioca un ruolo fondamentale. La confusione si crea quando si vogliono imporre nuovi modi di concepire la realtà senza aver prima fatto un lavoro con l’obiettivo di stimolare la presa di coscienza, la responsabilizzazione e il rispetto reciproco.

In passato anche la Chiesa ha guardato con qualche timore ai progetti di educazione all’affettività e alla sessualità temendo di aprire la strada a una deriva libertaria. Oggi quei timori sono del tutto superati?

Ceschia: Mi pare che oggi sia molto evidente la compresenza di tante anime nella Chiesa e si fa presto a catalogare progressisti e tradizionalisti. Credo che papa Francesco – sulla scia del Concilio Vaticano II – abbia dimostrato di avere a cuore l’ascolto del mondo, della storia e se ne lasci interpellare. Solo a partire da questa attenzione la Chiesa può effettivamente offrire la sua proposta, chiara, rispettosa dell’uomo e della sua dignità, fondata sul Vangelo. Questo è più che un discorso moralistico (i moralismi suscitano solo fastidio e rifiuto), è andare all’essenza dell’umano, al significato dell’amore e della generatività. Proporre concretamente l’amore come forma massima di libertà è una delle sfide a cui la Chiesa non può sottrarsi per paura. Questo comporta il saper farsi carico con pazienza, misericordia ma anche chiarezza dei vissuti delle donne e degli uomini di oggi, delle loro ferite, della loro fatica di amare e del loro bisogno di amore, avendo a cuore non anzitutto di correggerli perché si “comportino bene” ma di facilitare condizioni che facciano sperimentare il bene, relazioni che accolgono, che sanano e liberano, anche nelle nostre comunità cristiane.

Simonetto: C’è sicuramente uno zoccolo duro che guarda ancora con un certo sospetto l’apertura nei confronti dei temi legati all’educazione affettiva e sessuale. Ma la Chiesa sta mostrando sempre più di saper cogliere l’emergenza educativa che è in atto, consapevole del fatto che per accompagnare ed essere a fianco alle nuove generazioni sia necessario rimanere in ascolto, superando posizioni di giudizio. È una consapevolezza che, a partire dal dialogo con le scienze umane, sta progressivamente uscendo dal piano teorico per diventare sempre più pratica. Stiamo assistendo ad un passaggio che definisco rivoluzionario e che si concretizza nell’attivazione di percorsi di formazione pensati per sacerdoti, religiosi, educatori pastorali, catechisti, animatori, genitori con l’obiettivo di fornire agli adulti conoscenze e strumenti utili nell’approccio al mondo giovanile.

C’è anche chi dice che la Chiesa non abbia titolo per educare alla parità di genere perché istituzione che nei suoi vertici è tutta al maschile e perché la Bibbia è tutta intrisa di maschilismo. Una prospettiva banale o c’è qualcosa di vero?

Ceschia: La Chiesa “ha titolo”… ma direi di più: ha responsabilità anzitutto di verificare e riformare se stessa a partire dal Vangelo, dall’esempio di Gesù, maschio indubbiamente inclusivo. Il Vangelo è buona notizia del Signore per le donne che lui ha incontrato, che gli sono state accanto fino alla fine e la Chiesa – proprio a partire dal Vangelo - non può portare un annuncio parziale.

Simonetto: La Chiesa deve a mio avviso partire dal riconoscere di essere stata per lungo tempo un terreno fertile di idee, tradizioni e atteggiamenti discriminanti nei confronti delle donne e di aver veicolato un certo tipo di immagine del femminile. Partire da questo riconoscimento significa arrivare ad affermare che la violenza di genere è una realtà presente anche all’interno delle strutture ecclesiastiche e nelle comunità e famiglie cristiane. Rompere il silenzio, scegliere di denunciare abusi e disuguaglianze e dire con forza il proprio “no” ai meccanismi di prevaricazione, dominio e possesso esercitati dagli uomini sulle donne è presupposto fondamentale e imprescindibile per acquisire credibilità. La Chiesa può essere davvero un fondamentale alleato per contrastare e prevenire la violenza ma senza una chiara presa di posizione il messaggio cristiano di salvezza non può essere veicolato con coerenza.

Al di là della violenza fisica che, come le cronache ci dicono quotidianamente arriva ormai al femmicidio con frequenza crescente, c’è una violenza di genere culturale-psicologica non meno allarmante perché parla comunque di un rapporto asimmetrico tra i generi. In questo caso come si interviene?

Ceschia: A questa domanda ho in parte già risposto: la questione è creare mentalità, attraverso la cura delle parole, degli stili, attraverso l’attenzione agli effetti dei simboli, delle immagini. E in questo, come già ho detto, occorre fare rete, occorre scegliere insieme quale cultura si vuole promuovere nella Chiesa, nella politica, nella scuola, nel mondo dello sport….

Simonetto: La nostra cultura è fortemente condizionata dagli stereotipi di genere, che guidano il nostro modo di comportarci, di pensare, e di organizzare tutto. Il mondo dei media, dei social media e della pubblicità usa di frequente stereotipi sessisti e denigranti verso le donne per guidare i gusti, le preferenze e i desideri. L’influenza di questi stereotipi può agire in modo così grave sullo sviluppo della persona da arrivare a condizionare la valutazione delle proprie capacità: effetti evidenti possono essere riscontrati, per esempio, sulle prestazioni sportive e sulle capacità matematiche. È chiaro che questo può arrivare a limitare davvero le possibilità di crescita del soggetto e il suo contributo alla società. Fondamentale è, quindi, essere consapevoli che gli stereotipi di genere sono una forma di violenza subdola, legittimata e che diventano sovente anticamera di discriminazioni e disuguaglianze.

Una recente indagine condotta dall’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza con la Direzione della Polizia di Stato su adolescenti e violenza di genere (14-18 anni), ha messo in luce come troppo spesso gli episodi di prevaricazione non vengano denunciati perché le ragazze per prime non hanno la percezione di essere vittime. Per esempio, la maggior parte delle ragazze (6 su 10) non ha nulla da ridire alla richiesta del partner di controllare lo smartphone, scambiando questa invasione della privacy come gesto finalizzato a conoscersi meglio, visto “che non ho nulla da nascondere”. Se anche le giovanissime non hanno nulla da ridire sulla prevaricazione maschilista, la strada da fare è ancora lunga… Ci riusciremo?

Ceschia: Ci riusciremo se formeremo alla consapevolezza e se promuoveremo tutte quelle condizioni che suscitino nelle giovani generazioni una profonda riflessione sul senso autentico della libertà, della autonomia, del rispetto del limite. Siamo una società molto sbilanciata sui diritti, poco propensa a considerare la loro profonda connessione con i doveri, in un tempo in cui la libertà sembra non avere confini mentre, in realtà, siamo condizionati e spesso sollecitati più al reagire che a un agire ponderato. Il tema dell’educazione della coscienza è urgente nei giovani, ma direi anche negli adulti.

Simonetto: La strada è indubbiamente ancora lunga e il lavoro sociale e culturale che abbiamo davanti è ancora tanto ed è proprio qui che l’educazione può diventare strumento per un cambiamento. Questi dati non fanno altro che confermare quanto espresso pocanzi: è urgente e fondamentale un approccio olistico che non trascuri di investire energie sull’educazione affettiva, emotiva e digitale di ragazzi e ragazze. Veicolare informazioni e saperi è importante ma non basta. Il mondo degli adulti deve impegnarsi a tutti i livelli a fornire modelli, a essere testimone di modalità relazionali sane. Non possiamo tirarci indietro: la violenza di genere è qualcosa che riguarda e tocca tutti noi, uomini e donne.

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