sabato 19 ottobre 2024
Nelle 26 economie più vulnerabili, il debito è ai massimi dal 2006: aumenta la probabilità di default e di tensioni sociali. Due terzi di questi Paesi sono coinvolti in conflitti
Giovani a Beira, in Mozambico: sono africane 22 delle economie più fragili

Giovani a Beira, in Mozambico: sono africane 22 delle economie più fragili - Ansa

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Sempre più debiti, sempre meno aiuti. Sempre più denaro speso per ripagare interessi su un debito crescente, sempre meno risorse per educazione, sanità, infrastrutture. Le 26 economie più vulnerabili del mondo – 22 Paesi africani, più Afghanistan, Corea del Nord, Siria e Yemen – hanno visto il loro debito aumentare ai massimi dal 2006. Parallelamente, in questi Paesi, in cui vive il 40 per cento della popolazione mondiale, la quantità di aiuti internazionali ricevuti come quota del Pil si è ridotta al livello minimo degli ultimi due decenni. Così, se le economie a medio-alto reddito hanno potuto recuperare rispetto alla crisi seguita alla pandemia di Covid, i Paesi più poveri sono rimasti al palo, con un debito pubblico che ora si attesta in media al 72% del Pil, sempre più vulnerabili a disastri naturali e altri choc, come le conseguenze dei conflitti armati.

«C’è molto che le economie a basso reddito possono e devono fare da sole – sottolinea il vice capo economista della Banca Mondiale, Ayhan Kose –. Ma allo stesso tempo questi Paesi hanno anche bisogno di un aiuto più forte dall’estero». I Paesi più poveri hanno contratto prestiti onerosi durante la pandemia, triplicando deficit che non sono stati più in grado di risanare. Il risultato è che quasi la metà di loro si trova già ora in difficoltà per il debito o ad alto rischio di esserlo, una quota doppia rispetto al 2015. Lo si è già visto negli ultimi anni, con l’aumento del numero dei default in particolare nell’Africa sub-sahariana. Paesi come Zambia, Ghana ed Etiopia non sono riusciti a ripagare i propri debiti, precipitando in gravi crisi economico-sociali. In altri Stati, come il Kenya, la necessità del governo di fare cassa per ripagare i debiti – con l’eliminazione di sussidi e l’aumento delle tasse – ha avuto come risultato quello di esacerbare le tensioni sociali e di alimentare la protesta di piazza, con il successivo ritiro delle modifiche fiscali.

Rispetto a due decenni fa, insomma, il solco tra i Paesi a reddito medio-alto e i Paesi più poveri si è ancora più dilatato, con le economie vulnerabili che sono oggi ancora più deboli rispetto a inizio millennio. I Paesi vulnerabili – dove il reddito medio è inferiore a 1.145 dollari annui – sono in maniera crescente dipendenti dagli aiuti dell’International Development Association (Ida), istituto di Banca mondiale che fornisce sovvenzioni e prestiti agevolati a interessi vicini allo zero. Spesso, però, non basta, e sul mercato i tassi di interesse sono ormai a due cifre, come gli ultimi prestiti a cui ha dovuto accedere proprio il Kenya, che non figura peraltro nemmeno tra i 26 Stati più poveri.

L’Ida, come ha riferito la stessa Banca mondiale nel presentare gli ultimi dati sulle vulnerabilità fiscali delle economie più fragili, ha fornito di fatto quasi la metà di tutti gli aiuti allo sviluppo che le economie a basso reddito hanno ricevuto nel 2022 da organizzazioni multilaterali. «In un momento in cui gran parte del mondo si è semplicemente allontanata dai Paesi più poveri, l’Ida è stata la loro principale ancora di salvezza», spiega l’istituto con sede a Washington. In generale, la capacità delle economie a basso reddito di attrarre finanziamenti a basso costo si è in gran parte esaurita: l’assistenza pubblica netta allo sviluppo in percentuale del Pil è scesa al 7% nel 2022, al minimo da 21 anni. L’alternativa è rivolgersi al mercato, a costi crescenti.

La Nigeria spende già in interessi il 35% delle sue entrate, Sudafrica, Angola e Uganda tra il 20 e il 26%. In generale, solo per restare ai Paesi africani, tra il 2020 e il 2022 la spesa pubblica pro capite è stata di 70 dollari per gli interessi sul debito, di 60 dollari per l’istruzione, appena di 39 dollari per la salute. E a livello globale, sono dati Onu, 3,3 miliardi di persone vivono oggi in Paesi che spendono più in interessi che in salute o educazione. Nuovi debiti a tassi così alti, insomma, rischiano solo di preparare il terreno per future crisi debitorie ancora più gravi.

L’analisi di Banca mondiale sottolinea che due terzi dei 26 Paesi più poveri sono coinvolti in conflitti armati o hanno difficoltà a mantenere l’ordine a causa della fragilità istituzionale e sociale, un elemento che ha conseguenze anche sugli investimenti esteri. Tra questi, il Sudan, il Mali, il Burkina Faso, il Niger, tra guerre e colpi di Stato. I conflitti, sottolineano gli analisti, provocano danni duraturi ai bilanci pubblici: in media, i saldi fiscali peggiorano fino a 1,5 punti percentuali del Pil. I Paesi vulnerabili dipendono inoltre da poche commodity da esportazione, restando subordinate ai mercati internazionali, il che li espone a frequenti cicli di espansione e contrazione economica.

Anche i disastri naturali hanno avuto un impatto enorme su questi Paesi negli ultimi dieci anni. Tra il 2011 e il 2023, questi eventi sono stati associati a perdite medie annuali pari al 2 per cento del Pil, cinque volte la media dei Paesi a reddito medio-basso, evidenziando la necessità di investimenti molto più elevati, oltre che l’importanza di migliorare la riscossione fiscale, che risente dell’atipicità dell’economia informale. Anche i costi di adattamento al cambiamento climatico sono più elevati per le economie a basso reddito rispetto ad altre economie in via di sviluppo: l’equivalente del 3,5% del Pil annuo, cinque volte il tasso dei Paesi a reddito medio-basso. Tutte risorse necessariamente sottratte ad altri servizi prioritari, come la formazione e il consolidamento dei servizi sanitari di base. La coperta, per i poveri, rischia di essere sempre più corta.

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