Mezzo milione di studenti; oltre 150 milioni di ore l’anno;100 milioni di euro l’anno di investimento. Sta in queste tre cifre una delle grandi sfide della «buona scuola», la riforma targata Renzi-Giannini: l’alternanza scuola-lavoro, cioè periodi di studio compiuti direttamente in azienda. Passaggio di non poco conto per un Paese come il nostro, nel quale la disoccupazione fra i ragazzi tra i 15 e 24 anni supera il 40% e oltre due milioni e 200mila giovani non sono né nel sistema scolastico né in cerca di un lavoro (quelli che le statistiche e le ricerche definiscono con la sigla inglese di Neet). Ma anche un passo importante per creare un contatto virtuoso tra due mondi – quello della scuola e quello del lavoro – che per troppo tempo si sono guardati con diffidenza e preoccupazione. A dire il vero qualche tentativo di avvicinamento e collaborazione vi è stato già in passato – la normativa sull’alternanza risale già al 2010, con l’introduzione anche dell’apprendistato come percorso sostitutivo per il conseguimento dell’obbligo formativo ai 16 anni – ma fino ad ora con risultati non decisivi. La legge 107/2015 (cioè la buona scuola) vuole essere il punto di svolta introducendone l’obbligo per l’intero ultimo triennio delle superiori per un totale di 400 ore negli istituti tecnici-professionali e di 200 ore per i licei, che fino ad ora non erano coinvolti. «Dal ministero aiuteremo le scuole in questa prima fase di difficoltà» assicurava nelle scorse settimane il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi, annunciando anche una proroga nei tempi di presentazione da parte dei dirigenti scolastici dei progetti, il cui termine è scaduto qualche giorno fa. Nel progetto dovrebbe essere il quarto l’anno più corposo per l’alternanza, con un «assaggio» di un paio di settimane al terzo anno e altrettante settimane nel quinto anno, quasi a completare il percorso. Ma per evitare che le buone intenzioni della riforma restino soltanto sulla carta, occorre al più presto affrontare qualche aspetto che diventa decisivo. In primo luogo le regole con cui governare questa opportunità offerta agli studenti di approcciare il mondo del lavoro durante il periodo degli studi. Si tratta di puntare a una collaborazione chiara tra le parti in causa e che non dimentichi mai che al centro vi sono dei giovani in formazione. Uno dei punti di diffidenza nasce proprio da questo: la scuola rivendica – non a torto – il proprio ruolo educativo e di direzione di questo meccanismo; da parte sua l’azienda, in qualche caso, considera questi periodi di stage come la possibilità di impiego di manodopera non retribuita. Una diffidenza e una distanza che ha portato nel tempo a una progressiva riduzione della scelta tecnico-professionale nell’istruzione superiore, come ha recentemente denunciato un rapporto elaborato dall’associazione Trelle e dalla Fondazione Rocca, in cui si è evidenziata una emorragia che ha fatto passare gli iscritti all’area tecnica dal 45% sul totale dell’anno scolastico 1991/92 al 33,7% del 2014/15. Una fuga legata anche all’aumento della sensazione dello scarto tra il percorso scolastico e l’approdo lavorativo finale. Sempre più spesso si sente dire che tecnici e professionali «non preparano più al mondo del lavoro». Insomma, come sottolinea Claudio Gentili, vice direttore Area innovazione e Education di Confindustria, «viviamo un paradosso: da una parte si pretende di tenere fuori dalla scuola il lavoro e dall’altra si desidera che lo studi porti al lavoro. Davvero un atteggiamento schizofrenico, che dobbiamo cambiare». Altro capitolo spinoso è l’uniformità dell’offerta di alternanza scuola-lavoro sull’intero territorio nazionale. Una presenza a macchia di leopardo, come già si registra per l’offerta dei percorsi della formazione professionale, che, per legge, permettono di assolvere l’obbligo formativo fino ai 16 anni, accogliendo ragazzi e ragazze che spesso vengono «espulsi» dai tradizionali percorsi scolastici. Un rischio che si pone anche per l’alternanza scuola-lavoro, visto che il nostro Paese non presenta una distribuzione del mondo dell’impresa consistente in tutte le Regioni e questo crea non pochi problemi soprattutto nel Sud.
Eppure l’alternanza scuola-lavoro è obbligatoria anche per gli studenti di quelle Regioni. Evidente l’urgenza di studiare un piano globale che metta insieme le realtà produttive e lavorative del territorio in cui la scuola opera, proprio per garantire opportunità di formazione a tutti. Da non dimenticare – terzo aspetto critico – che oltre l’85% delle imprese in Italia ha meno di dieci dipendenti e dunque si tratta di realtà occupazionali che hanno difficoltà a partecipare a questo meccanismo. Anche in questo caso la collaborazione tra le imprese diventa quanto mai necessaria magari per creare «poli» a cui le scuole possano rivolgersi per realizzare progetti di alternanza validi anche in realtà territoriali che non offrono la presenza di grandi imprese. Non siamo all’anno zero su questo punto, qualche esempio virtuoso si è messo in moto, come «la casa del lavoro» (strutture esterne alle imprese in grado di riproporre agli studenti la complessità dei processi aziendali) promossa dal Centro di ricerca interuniversitario in Economia del territorio, di cui abbiamo parlato su Avvenire lo scorso primo novembre. Ma con la legge 107 è doveroso passare dalla sperimentazione a un piano organico e strutturato che veda una stretta collaborazione tra i ministeri dell’Istruzione (Miur) e del Lavoro con la Confindustria. E proprio Miur e Confindustria firmeranno oggi un protocollo d’intesa sul tema del rafforzamento tra scuola e mondo del lavoro. Significativo anche il contesto scelto per questa sigla: Job & Orienta, la manifestazione che annualmente a Verona offre un panorama sull’orientamento, la scuola, la formazione e il lavoro. Del resto il salone, che quest’anno festeggia i suoi 25 anni di vita, ha posto proprio questo tema come titolo dell’edizione 2015: «Il lavoro, una realtà che educa», quasi a chiusura di una «trilogia» che dal 2013 ha visto i temi «Trovare lavoro a scuola» e «Imparare lavorando». Significativo anche il fatto che la firma del protocollo avvenga in un convegno a cui, oltre al ministro Giannini e il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, saranno presenti anche i presidenti della piccola industria Alberto Baban, dei giovani imprenditori Marco Gay, il vicepresidente di Confindustira educationl Ivan Lo Bello e il leader confindustriale di Verona Giulio Pedrollo. Quanto mai necessario, in questa fase d’avvio, puntare e offrire buone pratiche, modelli sui quali elaborare progetti da introdurre su tutto il territorio nazionale, sensibilizzando tutte le parti in causa, nella consapevolezza che anche attraverso l’alternanza scuola-lavoro si gioca molto del nostro futuro e di quello delle giovani generazioni.