Operaio in fabbrica - ANSA
Restare poveri pur lavorando. Forse 30 anni era l’eccezione alla regola, oggi non più. La povertà lavorativa riguarda circa il 13% dei lavoratori in Italia, quasi uno su sette. E uno su quattro, il 25%, ha una retribuzione considerata bassa (ovvero inferiore al 60% di quella mediana). Del resto poco tempo fa hanno fatto rumore i dati dell’Ocse che mostrano come l’Italia sia l’unico Paese della Ue dove i salari reali tra il 1990 e il 2020 si siano ridotti: abbiamo perso circa il 3% mentre la Spagna, penultima in classifica, ha segnato un aumento del 6% e Francia e Germania di oltre il 30%, per restare ai big della vecchia Europa.
Lo stop del nuovo governo.
All’interno di questo scenario è maturato negli ultimi anni il dibattito sull’introduzione anche nel nostro Pese di un salario minimo legale, attualmente previsto in 21 dei 27 stati dell’Unione europea. Un’esigenza rafforzata ora dalla secca perdita di potere d’acquisto dei salari causata dalla superinflazione. Una misura che «se introdotta con il necessario equilibrio, può rispondere a non trascurabili esigenze di giustizia sociale», ha osservato ieri il governatore di Bankitalia Ignazio Visco.
La concreta possibilità di un intervento legislativo però è stata bruscamente interrotta con la vittoria alle elezioni politiche dell’attuale maggioranza. Già a fine novembre una mozione parlamentare di indirizzo bocciava l’ipotesi di una legge ad hoc in materia.
E la premier Giorgia Meloni ha più volte espresso la sua contrarietà, l’ultima pochi giorni fa: «È meglio tagliare il cuneo che fare il salario minimo legale, che è buono sul piano filosofico ma nella sua applicazione rischia di essere un boomerang», ha detto la presidente del Consiglio al Festival dell’Economia di Trento senza precisare oltre. Come se le due cose, taglio del cuneo e salario minimo, fossero necessariamente alternative.
Le proposte avanzate.
Di minimi salariali si parlava già nel Jobs act di Matteo Renzi nel 2014, rimasto però lettera morta sotto questo aspetto. Negli anni successivi è stato soprattutto il M5s a sventolare la bandiera della paga minima. Prima firmataria di una proposta di legge è stata la parlamentare Nunzia Catalfo nel 2019: fissava il limite orario minimo a 9 euro l’ora. Anche il Pd ha presentato proposte in merito.
E con il governo Draghi l’anno scorso era in dirittura d’arrivo la proposta a cui lavorava il ministro del Lavoro Orlando di regolare i minimi salariali attraverso una legge che avrebbe esteso erga omnes i livelli previsti dai contratti di lavoro più rappresentativi.
Formulazione questa che avrebbe messo d’accordo Cgil, Cisl e Uil, timorose di indebolire la contrattazione con l’indicazione di un minimo orario nazionale. E che comunque restano divise sulla certificazione per legge della rappresentanza sindacale.
Con la nuova legislatura comunque la finestra di opportunità pare chiusa. Nonostante l’invito di Bankitalia. Va detto che il contrasto al fenomeno degli working poors non può essere ridotto all’attivazione o meno di un salario minimo legale.
A pesare sul livello insufficiente delle retribuzioni in Italia, dicono gli esperti, è una miscela composta anche dalla bassa produttività del lavoro, dall’aumento delle forme lavorative precarie, dall’estensione del part time involontario e dal permanere di una vasta area di lavoro sommerso e di un tasso di occupazione femminile ai minimi in Europa.
La Ue e l’Italia.
Tuttuvia la regolamentazione per legge dei minimi contrattuali è un tassello importante che anche la Ue richiede con una Direttiva specifica approvata pochi mesi fa. Ma Bruxelles non impone la fissazione di una paga minima oraria a quei Paesi dove la contrattazione collettiva copre almeno l’80% dei lavoratori. Una soglia che l’Italia supera abbondantemente. È vero che da noi il proliferare dei contratti pirata spinge al ribasso le retribuzioni. Ma i contratti nazionali firmati dai sindacati confederali coprono ancora il 97% dei lavoratori contrattualizzati (esclusi agricolture e lavoro domestico).
Ciononostante, secondo i dati dell’Inps riferiti al 2019,il 18,4% dei lavoratori italiani, circa 4 milioni, è sotto la soglia dei 9 euro lordi l’ora, considerando salario base più la tredicesima. Colpa in taluni casi di accordi contrattuali insufficienti o non rinnovati: come accade in settori come i servizi di pulizia, la vigilanza e il lavoro domestico ed agricolo.
Fermo restando che buona parte dei lavoratori poveri stanno fuori dai contratti: tirocinanti, occasionali, partite Iva, sommerso.
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