La lunga recessione ha spezzato ancor più lo Stivale. Ma il dualismo economico Nord-Sud che da un secolo e mezzo disunisce ciò che l’Italia ha unito non basta più a descrivere quale Paese siamo oggi. L’effetto combinato tra la crisi (specialmente dell’industria) e la spinta alla modernizzazione ha prodotto nuove fratture che percorrono trasversalmente le dorsali italiane. Oggi il Paese può essere suddiviso in cinque aree diverse. La nuova mappa delle diseguaglianze emerge da una ricerca delle Acli, condotta rielaborando i dati delle dichiarazione dei redditi ai presentate ai Caf e quelli delle banche dati ufficiali. Sono le «Cinque Italie» che ci lascia in eredità la crisi, aree non sempre contigue ma omogenee al loro interno per il reddito pro-capite, gli indicatori economici e del disagio sociale.
Con un paradosso: le zone che hanno meglio reagito alla recessione sono anche quelle dove sono più aumentate le disparità interne. Solo nel 20% dei casi la forbice sociale si è ridotta, e si tratta dei territori più arretrati. L’Italia che corre di più, secondo il rapporto dell’associazione guidata da Roberto Rossini, è quella dei «poli dinamici e della crescita asimmetrica». Sono le province di Roma e Milano e l’Emilia Romagna, trainate dallo sviluppo dei servizi e del terziario avanzato, dalla presenza di grandi imprese e da una crescita demografica (grazie al saldo migratorio positivo). Il centro di questa Italia è l’area metropolitana milanese, che si propaga la dorsale della via Emilia mentre Roma ne fa parte come snodo nevralgico delle istituzioni, delle grandi imprese pubbliche e delle rappresentanze internazionali.
Il Pil pro-capite è di 31.500 euro, quasi il 50% in più dei 22 mila nazionali, e si producono 8,4 brevetti per milione di abitanti a fronte dei 2,2 della media italiana. Aree forti ma non immuni da problemi: qui le diseguaglianze tra il 2008 e il 2015 sono salito del 7,6% a fronte del 4,3% italiano. Il secondo gruppo è l’«Italia delle comunità prospere» o del benessere diffuso. Sono 13 province del Centro e del Nord, non lontane dal primo polo per livelli di ricchezza. Qui il tasso di occupazione è del 66%, dieci punti in più della media e l’incidenza delle esportazione sul Pil arriva al 35%, contro il 26 nazionale. Ne fanno parte due province toscane (Firenze e Siena), due piemontesi (Cuneo e Biella), Forli e quasi tutto il Nordest (non Venezia). Zone dove la ricchezza è più equamente distribuita sul territorio e tra gli strati sociali e il modello di sviluppo più equilibrato. Non sarà il paese del Bengodi ma è l’Italia che sta meglio.
Il terzo gruppo è quello l’«Italia che resiste», i «territori industriosi » di storico insediamento manifatturiero, dove il tessuto produttivo è stato messo a dura prova dalla globalizzazione ancor prima della crisi. Ma che nel complesso è riuscita a resistere, pur perdendo terreno. Il Pil pro capite resta un po’ sopra la media nazionale, mentre l’indice che misura il disagio sociale è inferiore. È un’area molto estesa, 40 province che comprendono quasi tutto il resto del Nord e il centro fino a Grosseto, Perugia e Ascoli sul confine meridionale. Una «Italia di mezzo» di cui fanno Torino, Genova, Venezia, Trieste, Ancona, Brescia e Livorno per restare alle maggiori città. Gli ultimi due territori sono quelle del maggior disagio e comprendono gran parte del Meridione.
Nel quarto gruppo ci sono le «Province depresse», l’«Italia in lento declino». Ne fanno parte Sardegna, Basilicata, le provincie di Lecce e Ragusa e, risalendo verso nord, Molise e Abruzzo, tutto il Lazio tranne Roma, Terni, Massa Carrara e Imperia. Territori impantanati in una lunga stagnazione ma ancora non troppo distanti dagli standard nazionali. Il Pil è a quota 18.500 euro, l’occupazione oltre il 51%. Ben diversa la situazione dell’ultimo gruppo, il «Sud fragile» dove il Pil pro capite è di circa un terzo sotto a quello nazionale e meno della metà di quello del primo gruppo, l’indice di occupazione è al 40%, e la disoccupazione giovanile oltre il 55%, il saldo migratorio in rosso. Un’«Italia del profondo disagio» che, afferma il rapporto «non ha ancora dato cenni di reazione alla crisi». Stanno quasi tutte in questa area le 23 province italiane dove le diseguaglianze non sono aumentate durante la crisi. Una sorta di livellamento verso il basso.