Altro che Neet, in Italia si fa strada una generazione di giovani imprenditori preparati e motivati. Al posto fisso preferiscono il rischio di mettere in piedi un’attività tutta loro mettendo a frutto studi e competenze. È la rivincita dei ragazzi italiani, spesso bollati come bamboccioni o sfaticati, quella che arriva dal “Gli Eet, i giovani che inventano un lavoro e ce la fanno” il nuovo focus Censis Confcooperative. Ma chi sono questi Eet? L’acronimo che sta per Employed, Educated and Trained indica una categoria contrapposta ai Neet (giovani che non lavorano e non studiano). Un’occupazione di “nuovo conio” come la definisce Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative che parla di “un esercito di 144mila giovani tra i 15 e i 29 anni che, grazie all’autoimprenditorialità, aprono attività in diversi settori, prevalentemente innovativi e tecnologici, battono la crisi, fanno impresa e creano lavoro”.
La comunicazione digitale, mediata da strumenti sempre più sofisticati, è l’ambito in cui i giovani imprenditori danno il meglio di loro stessi, monopolizzando l’offerta di servizi e spiazzando la concorrenza delle generazioni precedenti. Dal 2017 ad oggi sono più triplicate le imprese giovanili che si occupano di pubblicità e ricerche di mercato, e quelle che offrono servizi di direzione aziendale e consulenza gestionale. Incrementi rilevanti, superiori al 50%, si registrano nella produzione cinematografica, televisiva e musicale, nella produzione di software e consulenza informatica. Tra i settori in crescita infine i servizi postali e le attività di noleggio.
Il numero dei giovani occupati in Italia è in continuo aumento (anche per effetto della perdita del potere d’acquisto) si evidenzia nel report, ma si assiste ad una polarizzazione. I giovani più preparati, con in tasca una laurea o una specializzazione post-laurea, sono il 23,5% degli occupati, il loro tasso di occupazione è cresciuto del 3,1% in pochi anni. Quelli meno scolarizzati, con il diploma di terza media, sono una minoranza e il loro tasso di occupazione è calato del 2,7%. Lo zoccolo duro restano i giovani diplomati che sono circa il 60% dei giovani lavoratori, in forte calo però in alcuni ambiti come la sanità e dall’assistenza sociale (-40.2%), ma anche nelle attività ricreative (-308%), nel commercio e nella ristorazione. I giovani occupati sono 3 milioni, di cui circa 1,8 milioni di uomini e 1,2 milioni di donne. Rappresentano il 13,3% del totale degli occupati, e si stima che corrispondano al 6,6% del totale delle retribuzioni lorde da lavoro dipendente e dei profitti da lavoro indipendente. Il valore complessivo raggiunge i 52,2 miliardi di euro, il 2,5% del Pil. Malgrado i progressi complessivi, il gender gap nell’occupazione giovanile è ancora elevato. Il divario nel 2023 è infatti di 10,4 punti percentuali (39,7% per i maschi contro 29,3% per le femmine).
Se si guarda invece al gap territoriale si scopre che i nuovi talenti hanno casa al Sud. Il 35,4% dei 144mila giovani imprenditori risiede nel Mezzogiorno, il 28,5% nel Nord Ovest, il 16,7% nel Centro, e infine il 19,4% nel Nord Est. Analizzando i numeri complessivi il quadro si fa meno roseo. Tra il 2016 e il 2023 si riscontra – in base alle elaborazioni del Censis su dati forniti dal Registro delle imprese di Infocamere - , una decrescita del 7% del numero dei titolari di impresa. Le imprese gestite dagli under 30 sono diminuite del 16,9% con una decrescita costante, più veloce durante gli anni della pandemia. Il numero dei giovani titolari di impresa è passato da 186 mila a 155 mila con un’incidenza sul totale degli imprenditori del 5,3% rispetto al 6% del 2016. Unica eccezione il settore della pubblicità e delle ricerche di mercato: in questo caso un quinto delle imprese è a conduzione giovanile, con aumento del 12,3% rispetto al 2017.
L’evoluzione del mercato occupazionale giovanile italiano, è la conclusione a cui giunge il rapporto, evidenzia una marcata tendenza verso una “economia delle competenze”, con una crescente domanda di personale altamente qualificato. La ristrutturazione del tessuto produttivo nazionale verso settori ad elevato valore aggiunto e intensità tecnologica, rende indispensabile affrontare la sfida del sistema formativo alle esigenze di un’economia sempre più imperniata su competenze e sull’innovazione continua, per evitare il rischio di un mismatch strutturale tra domanda e offerta.