sabato 30 aprile 2016
Due errori da non fare
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Monitorare costantemente i fenomeni è un bene, ma osservarli in un intervallo di tempo breve, traendone conclusioni definitive, è del tutto fuorviante. È ciò che accade da qualche tempo con i dati sull’occupazione. Durante la lunga crisi si è passati da una rilevazione trimestrale a una mensile da parte dell’Istat e, contemporaneamente, sia il ministero del Lavoro sia l’Inps hanno cominciato a diffondere ogni 30 giorni le registrazioni dei diversi rapporti di lavoro accesi e cessati. Una bulimia di dati che ha creato spesso distorsioni nella percezione dello stato di salute effettivo del mercato del lavoro. Emblematico ciò che è accaduto con la rilevazione su «occupati e disoccupati» pubblicata ieri dall’istituto di statistica. A marzo gli occupati sono aumentati di 90mila unità, i disoccupati calati di 63mila, mentre il tasso di disoccupazione è diminuito all’11,4%, il livello più basso dal 2012 (e quasi il doppio del 6% di prima della recessione). Abbastanza per far esultare il fronte governativo: «L’Italia riparte, il Jobs act funziona». Ma in realtà ancora non abbastanza, come ha rimarcato il presidente del Consiglio: «Lo dico io che ho fama di essere ottimista: non basta». Se, infatti, si allarga appena l’intervallo di tempo in cui si osservano i dati, ci si accorge di come nei primi tre mesi dell’anno gli occupati aggiuntivi siano appena 17mila rispetto all’ultimo trimestre 2015 e solo 15mila i disoccupati in meno. Insomma, abbiamo un buon risultato mensile, nulla più che una stabilità nel trimestre, un discreto miglioramento, infine, se guardiamo al dato annuale, con i suoi 263mila occupati aggiuntivi e i 274mila senza-lavoro in meno. In mezzo ci sono sottofenomeni apparentemente contraddittori – come l’aumento degli occupati ultra cinquantenni, +363mila in un anno, e la contemporanea espulsione di molti "anziani" da fabbriche e uffici – sul quale influiscono fattori demografici e cambiamenti normativi. Come pure occorre sempre tener presente che le quantità di "posti di lavoro" rilevati dall’Istat non danno conto della loro qualità. Per essere considerati occupati, infatti, è sufficiente aver svolto attività per un’ora nella settimana precedente alla rilevazione, anche solo retribuiti con uno dei 114 milioni di voucher da 10 euro che sono stati venduti lo scorso anno. Le statistiche, dunque, funzionano (e bene) come i fotogrammi di un film, da "leggere" nel suo scorrere, senza soffermarsi troppo sulla singola inquadratura, ma badando a quanto la narrazione complessiva sviluppa. Soprattutto, cercando sempre di scorgere i veri protagonisti dietro le fredde cifre, le persone al di là delle percentuali. È lo sforzo della Chiesa di cui dava conto ieri il cardinale Bagnasco sottolineando come «l’osservatorio delle nostre parrocchie e delle nostre comunità non registra ancora il miglioramento che tutti auspichiamo». Al di là dei numeri, sulla carne delle persone i morsi della crisi sono ancora visibili: in una famiglia perché i ragazzi non riescono a trovare che qualche tirocinio semi-gratuito, nell’altra perché la chiusura di tante piccole imprese ha lasciato a casa troppi padri 40-50enni, nell’altra ancora perché il grande cambiamento che si è innestato relega ai margini i meno preparati. Realtà dura come pietra, che i tweet di un fronte e dell’altro di polemica politica non intercettano e non scalfiscono. C’è un duplice errore da evitare, allora. Da un lato disconoscere lo sforzo di cambiamento che è stato innestato dal governo con la (generosa) decontribuzione, il Jobs act, le riforme la cui efficacia si misura almeno su un lustro. L’aumento dei contratti a tempo indeterminato sia in numero assoluto sia in percentuale sui rapporti di lavoro complessivi testimonia che un effetto positivo, almeno finora, c’è stato. Dall’altro lato, chiudere gli occhi di fronte alla realtà ancora assai complessa e problematica di un Paese tornato sì a crescere, ma ancora stentatamente (nell’ultimo biennio l’aumento del Pil è stato la metà di quello della Germania, un quarto della Gran Bretagna, meno di un quinto rispetto alla Spagna), per il quale, come pure ha ammesso ieri il premier, «tanto resta da fare». Resta da fare, appunto. Tutti assieme, con meno polemiche, più consapevolezza e partecipazione, come anche questo Primo maggio ci chiede. Perché sia davvero la festa dei lavoratori.
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