Andamento lento per la sanatoria a due settimane dal via, a metà cammino. Sono quasi 40mila le domande prevenute fino a venerdì sera, secondo il sito del Viminale, contro le 300mila attese o - dicono altri più realisticamente - 150-200mila. Troppo complessa la procedura, troppo alti i paletti economici e rigidi i criteri per dimostrare la effettiva permanenza nel nostro paese, lamentano associazioni e sindacati del Tavolo immigrazione. Che, pur condividendo lo spirito di emersione dal nero, paventano il fallimento dell’operazione e hanno già chiesto al governo uno sforzo per abbassare l’asticella. A differenza del 2009, la sanatoria avviene nel pieno di una crisi che sta colpendo duramente gli immigrati (un nuovo disoccupato su tre è straniero) ed è ancora rivolta al lavoro domestico e assistenziale. Finora la maggior parte dei moduli di emersione (24mila) viene infatti dalle colf, categoria per la quale è possibile regolarizzare anche rapporti part time purché superiori alle 20 ore settimanali, mentre circa 9.000 riguardano le badanti di persone non autosufficienti e solo 4.500 settori quali l’edilizia, l’agricoltura e il commercio. Questo ha prodotto strane certificazioni, con uomini pakistani, bengalesi e marocchini registrati come lavoratori domestici per aggirare gli ostacoli e avere il permesso a costi minori. La maggior parte delle schede proviene dalle tre grandi città. Prima Milano (quasi 5.000 domande), seguita da Roma (4.500), Napoli (4.000) e, a sorpresa, Brescia che con 1.700 domande precede Torino (1.100). Venerdì il Tavolo nazionale immigrazione - che annovera Acli, Caritas Italiana, Centro Astalli, Comunità di Sant’Egidio e i sindacati - ha lanciato un appello a Monti e ai ministri competenti (Cancellieri, Fornero e Riccardi) chiedendo di semplificare dove possibile le procedure, perché «il rischio è che il 90% dei potenziali aventi diritto resti esclusa». I punti critici? Primo, le modalità per comprovare la presenza del lavoratore in Italia prima del 31 dicembre 2011, che per la normativa deve essere certificata da un "organismo pubblico", intendendo gli uffici della pubblica amministrazione. «Luoghi – osserva Pino Gulia del Patronato Acli – da cui un irregolare gira al largo per paura dell’espulsione. Persino al pronto soccorso danno nomi falsi». Poi i costi elevati. Il datore di lavoro deve versare un contributo forfettario di 1.000 euro per ciascun lavoratore in nero, che non sarà restituito se la domanda viene respinta, oltre alle somme dovute a titolo contributivo e retributivo di almeno sei mesi. Si va da un minimo di 2.700 fino a un massimo di 5.500 euro. E poi, va da sè, più chiarezza.«I mille euro per aprire la pratica versati a fondo perduto vengono pagati dai lavoratori – prosegue Gulia – ai quali non sappiamo cosa accadrà se la domanda viene respinta. Mentre il datore, impresa o famiglia, può autodenunciarsi e, dopo aver versato i contributi arretrati all’Inps e aver risolto favorevolmente anche le buste paga, mettersi in regola per sempre».Anche le Caritas diocesane e decanali sono in difficoltà.«L’ostacolo principale – spiega Oliviero Forti, responsabile dell’ufficio immigrazione della Caritas italiana – è la prova di presenza sul nostro territorio al 31 dicembre 2011 che va documentata da organismi pubblici. Secondo l’interpretazione restrittiva del governo, sono tali solo le pubbliche amministrazioni. Ma sappiamo che queste non possono produrre documentazione, salvo casi molto particolari, agli irregolari. Chiediamo di non sorvolare su questo aspetto».Il Tavolo immigrazione chiede tra l’altro al governo di considerare come prova di presenza anche una dichiarazione sostituiva del datore di lavoro e di considerare prova di presenza i timbri di ingresso in area Schengen, di consentire la regolarizzazione dei rapporti di lavoro part-time in tutti i settori, di contenere i costi della regolarizzazione o, almeno, di prevederne la restituzione in caso di diniego. E, infine, di estendere il termine per la presentazione della domanda al 15 novembre. Tante richieste, ma una prima, importante risposta affermativa è venuta dal Capo di Gabinetto del ministero dell’Integrazione, il prefetto Mario Morcone.«Ci stiamo sforzando – ha dichiarato – con gli uffici del Lavoro e del Viminale di interpretare in maniera più flessibile il termine organismi pubblici, che non possono limitarsi alla sola amministrazione pubblica. Penso che i biglietti di viaggio su Trenitalia, ma anche gli abbonamenti sui mezzi di trasporto possano valere. L’importante è che i nuovi criteri abbiano un’applicazione omogenea in tutta Italia».