Passare dalla teoria alla pratica, dai principi alle regole: e quindi, se necessario, alle sanzioni. Ecco il valore aggiunto dell’impianto normativo comunitario che intende impattare sulle principali aziende nell’Unione europea. Con un’unica missione: accelerare la rotta del sistema economico verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile. O almeno, mantenere la rotta: durante il suo viaggio, la nave europea della sostenibilità ha cozzato contro le opposizioni politiche degli interessi corporativi delle lobby industriali e le resistenze degli Stati membri (tra cui l’Italia). Ma almeno, per il momento, non è naufragata.
Nell'ultimo anno sono stati approvati molti strumenti normativi dalla Ue per spingere le aziende a rendicontare in modo trasparente il proprio impatto ambientale. Separando “il grano dalla gramigna” e, quindi, le aziende che sono orientate alla sostenibilità da quelle che pur non essendolo, si vantano di quanto siano “green”. O peggio ancora, non hanno nessuna intenzione di intraprendere un percorso di sostenibilità, mentre il Pianeta, letteralmente, brucia.
A metà gennaio, il Parlamento europeo ha dato il via libera alla direttiva contro il greenwashing e l'obsolescenza programmata dei beni, che renderà l'Europa la regione più severa al mondo nel controllare le “dichiarazioni verdi” (green claims) fatte al pubblico. Seguiva l’accordo di dicembre scorso sull’adozione della direttiva sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità per accrescere la protezione dell'ambiente e dei diritti umani nella Ue. Qui si sono registrati i problemi maggiori, dato il peso della normativa. Si chiama Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD), impone alle imprese obblighi di diligenza in materia di sostenibilità e ha una ratio che i tecnici definiscono rivoluzionaria: «Crea un ecosistema economico responsabilizzato, consapevole e attivo sul fronte delle tematiche ambientali e sociali, consentendo alle imprese di organizzarsi e prevenire problemi anche di natura legale. I confini della responsabilità di un’impresa dovrebbero dunque essere delimitati meglio», spiega Sara Valaguzza, avvocato esperto in materia e professore ordinario di Diritto dell'ambiente e della sostenibilità all’Università degli Studi di Milano.
Originariamente, la CSDDD doveva interessare le imprese con sede nell’Unione con più di 500 dipendenti e un fatturato netto di almeno 150 milioni di euro l’anno, ma qualche settimana fa la presidenza belga ha dovuto trovare un compromesso al ribasso, a causa della strenua opposizione di lobby e Paesi come Italia, Francia e Germania.
Ora la soglia si è alzata ad almeno mille dipendenti e 450 milioni di euro di fatturato, interessando solo 5.441 aziende in Europa: appena lo 0,05% del totale, contro le 16.389 del testo di dicembre. In Italia si scende a 737 aziende rispetto alle oltre duemila della precedente versione.
Un’occasione persa, nonostante sia un passo avanti: le imprese interessate dovranno mappare, prevenire e rimediare agli effetti negativi, potenziali o effettivi, delle proprie attività e delle aziende che lavorano per loro in ogni parte del mondo. Chiaro che quest’obbligo ricade anche su aziende molto piccole, che lavorano con imprese più grandi toccate da questo provvedimento.
«Con questa direttiva la Ue gioca le sue carte sul piano globale facendo la frontrunner nella sostenibilità, anche al di fuori del proprio territorio, recuperando un'identità europea basata sull’etica del valore», prosegue Valaguzza. «Era molto attesa e avrà diversi effetti. Come azienda, mi trovo costretta a passare da una narrativa meravigliosa sulla mia compliance a un’azione concreta: ora se non misuro, sono sanzionato; se creo un danno ambientale, incorro in una responsabilità civile». Concretamente, il mancato adempimento delle norme della CSDDD sarà punito con sanzioni fino al 5% del fatturato, mentre le violazioni di diritti umani determineranno la responsabilità civile e l’obbligo di risarcire i danni alle vittime, con il rischio accessorio di precludersi appalti e concessioni.
Ad agosto, la Commissione aveva invece adottato gli European Sustainability Reporting Standards (ESRS) che mirano all'interoperabilità con diversi parametri di rendicontazione, come i GRI dell'International Sustainability Standards Board. Uno sforzo per rendere coerenti i parametri europei con quelli adottati a livello internazionale per la redazione dei bilanci di sostenibilità. E questi interessano direttamente un’altra direttiva importante, entrata in vigore circa un anno fa: la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD). Questa richiede che le aziende rendano note le questioni di sostenibilità da una prospettiva di “doppia materialità”, ovvero misurare le proprie attività per minimizzare l’impatto ambientale e stimare quanto si fa di positivo per la comunità e l’habitat circostante. E renderà obbligatoria dal 2025 la redazione dei rapporti di sostenibilità per le imprese con almeno 250 dipendenti, 20 milioni di euro di attivo e 40 milioni di fatturato. Soprattutto, a partire dal 2026 le PMI europee quotate saranno tenute a conformarsi alla CSRD, e nel 2028 questa disposizione si applicherà anche alle filiali delle imprese extracomunitarie soggette alla CSRD. In Europa, si tratterà di circa 50mila aziende interessate: ottomila solo in Italia.
L’impianto di queste ultime normative seguiva la visione e il grande piano dell’European Green Deal inaugurato dalla Commissione Von der Leyen, da cui sono nate la legge europea sul clima del 2021 e poi l’impegno a raggiungere il taglio del 55% delle proprie emissioni entro il 2030 per diventare il primo continente a impatto zero prima del 2050. Un sogno che la stessa Von der Leyen sembra aver dimenticato, se si legge il programma messo in campo dalla presidente per conquistare un nuovo mandato.
Ma gli esperti raccontano di norme che cristallizzano un cambiamento del mercato, a cui prima o poi anche le istituzioni dovranno uniformarsi: «La norma entra in un processo economico già avviato e che punta al riconoscimento del ruolo dell’impresa come attore politico. Si tratta dell’esito di una riflessione che avrà dei frutti in termini di creazione di valore anche fuori dalla Ue. In quest’ottica, le nuove normative spostano il perno dall’intento educativo puro ad obiettivi collaterali, soprattutto in merito ai cardini dell’organizzazione aziendale per guidarla ad essere promotrice di nuove policy», afferma Valaguzza.
Si tratta di un’evoluzione normativa spinta dalla consapevolezza pubblica sull’urgenza della transizione. «Un cambiamento bottom-up perché nasce da un’esigenza condivisa: standardizzare target precisi per creare un’identità sociale unitaria con cui le aziende si confrontano. Da queste normative nasce un nuovo patto sociale che indica una nuova identità europea. E riconosce una domanda che arriva dalle persone, in una mentalità evoluta per accogliere la sostenibilità non solo come principio ma come sviluppo aziendale».
Valaguzza fa indirettamente riferimento all’evoluzione delle teorie economiche dominanti. Anche se il sistema sembra ancorato alla teoria della massimizzazione del profitto introdotta da Milton Friedman negli anni Settanta del secolo scorso, oggi la teoria della creazione del valore aggiunto di Michael Porter e Mark Kramer dovrebbe essere la visione dominante di sviluppo aziendale: prima del profitto, qualsiasi impresa commerciale deve considerare il valore prodotto per i propri dipendenti e, quindi, per la comunità e l’ambiente in cui opera.
Questo nuovo impianto normativo europeo sulla sostenibilità, secondo la docente, è l’ultimo tassello prima di un cambiamento radicale e irreversibile: «Siamo a un momento di torsione dell’ordinamento da principi generali a norme applicative, esattamente com’è successo con l’inserimento della tutela dell’ambiente nella Costituzione italiana. Adesso come azienda sei costretta: domani sarà la normalità». Certo, lo stop alle dimensioni di intervento della CSDDD è un segnale pericoloso: nonostante i dati climatici e i trend del mercato, molte aziende e nazioni europee si oppongono alla regolamentazione delle imprese in un’ottica sostenibile. Ma intanto queste norme sono diventate strumenti attivi: segnali di come la società nel suo complesso cominci ad affrontare le insidie di un futuro che ha bisogno di risposte concrete invece che rinchiudersi sul presente minaccioso, rimpiangendo il passato. La rotta è segnata, ma bisogna evitare iceberg pericolosi che soprattutto all’avvicinarsi delle elezioni europee continueranno ad affiorare.