venerdì 27 novembre 2020
Gli annunci si moltiplicano, le attese crescono, ma ad oggi sono ancora molti i nodi da sciogliere sulla profilassi che verrà. Così la ricerca potrà cambiare il nostro futuro (se tutto andrà bene)

Ansa

Abbiamo già un vaccino contro il Covid?

Ha collaborato Francesco Broccolo, virologo dell’Università Milano-Bicocca e direttore del laboratorio di analisi Cerba

Non nei Paesi occidentali. Abbiamo tre candidati vaccini per cui le aziende farmaceutiche produttrici (Pfizer, Moderna e Astra-Zeneca) hanno dichiarato conclusi o prossimi alla conclusione i trial sugli uomini. Ne sono stati resi pubblici unicamente i dati sull’efficacia: non sono cioè state pubblicate o condivise altre informazioni su alcuna rivista scientifica. Per avere ufficialmente un vaccino contro il Covid, quest’ultimo deve essere però dichiarato sicuro ed efficace, e dunque autorizzato, dalle agenzie regolatorie del farmaco competenti. Al momento solo Pfizer ha chiesto ufficialmente l’autorizzazione all’uso in emergenza per il proprio candidato alla Food and drug administration (Fda) americana: quest’ultima ha fissato tra l’8 e il 10 dicembre le sedute per la valutazione della richiesta. L’eventuale, probabile via libera permetterebbe al vaccino di essere somministrato in via sperimentale negli Stati Uniti (e non sarebbe ancora un’autorizzazione completa). Perché un vaccino sia distribuito anche in Italia occorrerà l’autorizzazione dell’Agenzia europea del farmaco prima (Ema) e di quella italiana poi (Aifa). In Cina invece due vaccini sono già stati autorizzati lo scorso agosto all’uso in emergenza: sono quelli di Sinovac e Sinopharm.

Quali sono le differenze tra i candidati vicini alla meta?

I due vaccini più innovativi dal punto di vista delle tecnologia sono quelli di Pfizer e Moderna, che hanno utilizzato il metodo dell’Rna messaggero: un frammento di Rna del virus entra cioè nelle cellule facendo credere loro che l’infezione sia in corso e producendo in risposta lo sviluppo di un antigene specifico che scatena la risposta immunitaria. Questo tipo di vaccino non è mai stato utilizzato prima nella storia della medicina, nemmeno in ambito veterinario. La sua sicurezza ed efficacia, dimostrate nel breve termine, andranno verificate anche nel tempo. Il problema di questi vaccini è la loro conservazione, che richiede basse temperature. AstraZeneca invece utilizza il metodo del vettore virale: un altro virus viene “smontato” e al suo interno viene inserita una porzione dell’Rna del Sars-Cov-2, che attiva la risposta immunitaria. Il vaccino è più versatile, si conserva a temperature normali, costa pochissimo (tra i 2,80 e i 3 euro a dose) ma presenta delle anomalie sui dosaggi che - è stato annunciato proprio in queste ore - richiedono degli studi supplementari. Per tutti e tre i vaccini sono richieste due somministrazioni. La Cina ha seguito invece la strada già battuta da molti altri vaccini esistenti (come quello antipolio per esempio) del virus inattivato, o ucciso.

Chi sarà vaccinato potrà ancora contagiare?

La priorità di ogni vaccino è quella di permettere a chi lo riceve di non contrarre un’infezione, ovvero di produrre un risposta immunitaria specifica. Per quanto sappiamo oggi dalle dichiarazioni delle aziende farmaceutiche che hanno concluso la fase 3 della sperimentazione dei propri candidati vaccini, questi hanno dimostrato efficacia nel non far ammalare di Covid i soggetti a cui sono stati somministrati (nel 95% dei casi per Pfizer, nel 90% per Moderna, tra il 60% e il 90% per AstraZeneca). Ma nel caso del Sars-Cov-2 un conto è la manifestazione della malattia, un conto l’infezione, molto diffusa anche senza alcun sintomo. Ci sono due possibilità allora: una è che i vaccini blocchino sia l’insorgere della malattia che l’infezione (in questo caso i vaccinati non sarebbero più contagiosi e la diffusione del virus verrebbe subito bloccata); la seconda, che i vaccini controllino l’infezione tenendola per così dire a una carica virale molto bassa e costante tale da impedire la manifestazione di sintomi, ma non la contagiosità. I vaccini sarebbero utili comunque, anche se in modo più graduale: mortalità e ricoveri ospedalieri sarebbero annullati, ma si dovrebbero ancora mantenere mascherine e distanziamento per un periodo limitato, fino al raggiungimento dell’immunità di gregge.

Quando raggiungeremo l’immunità di gregge?

Per raggiungere l’immunità di gregge occorre che almeno il 70% di una popolazione sia vaccinata (perché si assista a una prima mitigazione importante dell’epidemia occorre almeno raggiungere la soglia del 60%). Nel caso del nostro Paese parliamo di 42 milioni di persone circa. Secondo quanto anticipato dal viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, l’Italia potrà contare su un centro di stoccaggio e vaccinazione ogni 20mila abitanti: 50 centri per milione di abitanti, 3mila per l’intera popolazione.

Ebbene, se ognuno di questi centri riuscisse da gennaio (che è la data più ottimistica per l’immissione in commercio dei vaccini e la loro effettiva distribuzione) a vaccinare 100 persone al giorno, 7 giorni su 7, in un mese sulla carta avremmo 9 milioni di persone vaccinate. Per il richiamo (cioè la somministrazione della seconda dose su questi 9 milioni) servirebbe un altro mese. Di questo passo, con 9 milioni di persone vaccinate ogni due mesi, avremmo raggiunto l’immunità di gregge in 10 mesi, cioè per la fine del 2021. Il calcolo, ovviamente, è del tutto teorico. Le variabili sul campo sono infinite: l’arrivo delle dosi innanzitutto (quante e quando), l’efficienza della loro distribuzione, la mole di personale che sarà coinvolto per espletare tutte le pratiche.

Chi si è già contagiato è immune o dovrà vaccinarsi?

Ancora in questi giorni su "Science" è stato pubblicato uno studio che documenta come chi si è contagiato conservi l’immunità al Sars-Cov-2 per almeno 6 mesi. Questo dato, nell’ottica dell’organizzazione di un piano vaccinale, è fondamentale: le persone che si sono contagiate negli ultimi sei mesi (ma si potrebbe decidere anche di fissare la soglia oltre) potrebbero essere escluse preliminarmente dalla lista d’attesa. In particolare nella prima fase delle vaccinazioni (verosimilmente i primi 3 mesi del 2021), quando le dosi saranno contate e andranno veramente privilegiate le categorie più esposte e quelle più a rischio. Anche i medici che si fossero contagiati potrebbero essere inseriti, per opportunità, nella seconda tornata di vaccinazioni. Chiaramente la vaccinazione resta comunque necessaria per tutti, anche come semplice rafforzamento delle difese immunitarie. Se il Sars-Cov-2, come ha fatto finora, non subirà mutazioni decisive, basterà vaccinarsi una volta (con le due dosi previste); se invece dovesse via via cambiare, assumendo la forma di un’influenza, allora sarà necessario anche rivedere i vaccini e probabilmente somministrarli con più frequenza.

Vaccini diversi daranno diverse immunità?

Questo è assolutamente impensabile, anche se l’equivoco è stato innescato dalla tipologia del tutto anomala di comunicazione sui vaccini a cui abbiamo assistito finora: una sorta di “gara” a chi dichiara il dato maggiore di efficacia senza tuttavia corredarlo dell’oggettività scientifica necessaria in questi casi. È questa stessa anomalia - legata più a logiche di mercato e di profitto che di ricerca - che ha creato tanti malumori e divisioni all’interno della comunità scientifica, con le polemiche a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane. Esistono da sempre, e per diverse malattie, diverse tipologie di vaccino: è il caso abbastanza noto dell’Hpv, per cui ci sono ad esempio due profilassi. Quando un vaccino viene autorizzato, e considerato efficace e sicuro dalle agenzie regolatorie, è valido: non esiste un vaccino meno valido di un altro o un’immunità di serie A e una di serie B. Più vaccini autorizzati sulla base dei dati (dunque sicuri ed efficaci) avremo, più dosi ne saranno prodotte e distribuite nel mondo, prima raggiungeremo l’immunità di gregge e potremo dichiarare debellata la pandemia.

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