mercoledì 19 giugno 2024
Il giurista ed ex presidente della Consulta: è la politica ad essere debole, non le istituzioni. L'autonomia al momento è una scatola vuota, l'applicazione può alterare la Carta
Mirabelli: «Il premierato aumenta il rischio del leaderismo»

Agenzia Romano Siciliani/s

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L’impegno è a restare sul terreno del «confronto ragionevole», senza approcci «pregiudiziali». Ed è proprio muovendo da questa premessa che Cesare Mirabelli, giurista ed ex presidente della Corte costituzionale, rileggendo in filigrana il premierato varato dal Senato, arriva a quello che per lui è il cuore del problema: «Si vuole risolvere una debolezza della politica non riformando la politica, ma adeguando le istituzioni a questa debolezza. È una illusione».

Pensiero lucido però complesso, professore. Si può spiegare meglio?

Il fine di una maggiore stabilità dei governi è condivisibile. Ma è un tema della politica o delle istituzioni? Se guardiamo a cosa sta accadendo in Francia, con un sistema semipresidenziale, comprendiamo che il tema è molto più profondo.

Però da qualche parte bisogna iniziare, no?

Certo, ma ci sono alternative meno invasive. Disegnare una legge elettorale che favorisce maggioranze parlamentari solide. Modificare i Regolamenti parlamentari per escludere che possa essere conveniente cambiare gruppo di appartenenza. Rafforzare i poteri del presidente del Consiglio, rendendo più operativa la sua funzione di indirizzo e coordinamento del governo e conferendogli il potere di chiedere la revoca dei ministri.

Il premierato non è, come dicono i proponenti, la massima opportunità per i cittadini di incidere?

Così come formulato, irrigidisce il sistema e toglie al Paese un ventaglio di soluzioni per eventuali crisi, che potrebbero essere risolte dal Parlamento sollecitato dal potere maieutico del presidente della Repubblica. E riduce i contrappesi al potere del governo. Si avvicina ancora di più il rapporto tra Parlamento ed esecutivo a quello tra assemblee e governatori negli enti locali, con le assemblee che non hanno strumenti per confrontarsi nelle istituzioni politiche rappresentative con chi con un gesto può mandare tutti a casa.

Questo potere viene però dal mandato del popolo.

Ma perché qualcuno oggi può dire che il governo non ha sufficiente forza rispetto al Parlamento? Le nostre Camere sono impegnate esclusivamente da atti dell’esecutivo, decreti legge da convertire, maxiemendamenti, voti di fiducia. Ripeto: la debolezza è della politica, la soluzione non può venire dalla modifica delle istituzioni. Specie in un tempo segnato da forte disaffezione e astensione.

Anche nell’ottica della partecipazione dei cittadini alle elezioni, lei vede più problemi che soluzioni?

Noi abbiamo una situazione in cui l’offerta politica non rispecchia l’ampia varietà delle sensibilità dell’elettorato. In questa situazione, avremmo un presidente del Consiglio eletto dal 25% dei cittadini. Non credo sia questa la soluzione alla crisi della partecipazione.

E quale è una soluzione?

Riportare al centro del confronto le autonomie sociali, realizzare la sussidiarietà orizzontale, fare in modo che i corpi intermedi, recuperando protagonismo, rianimino partiti anemici o assenti ridottisi a mere formazioni alle dipendenze del leader. Il premierato applicato a un sistema politico e partitico così malridotto può solo favorire il leaderismo.

Il sì del Senato arriva mentre le opposizioni protestano anche contro l’autonomia differenziata. Quest’altra riforma presenta criticità nel solco di quelle che ha indicato per il premierato?

Anche in questo caso inviterei ad assumere un atteggiamento non pregiudiziale. E quindi la premessa è d’obbligo: l’autonomia non solo nasce come istanza dal cuore delle comunità, ma è anche un’istanza che ha ampia cittadinanza nel pensiero politico e culturale dei cattolici. L’autonomia presuppone cooperazione e soiidarietà. Ma c’è un’altra premessa dovuta e scontata: nessuna legge ordinaria può superare il dettato costituzionale.

Sta accadendo con la “legge Calderoli”?

Le rispondo così: non ci si è ancora posti il problema di come si attribuiscano “forme e condizioni particolari di autonomia” per le Regioni a statuto ordinario senza alterare i principi costituzionali dell’unità del Paese, della solidarietà nazionale e dell’uguale sviluppo dei territori. A mio avviso la legge al momento è ancora una scatola vuota e questo rende la parte applicativa scivolosa, perché senza aver chiari gli strumenti si rischia di andare ad alterare di fatto la Costituzione. Ricordo che l’autonomia delle cinque Regioni a statuto speciale si esprime nei rispettivi Statuti adottati con legge costituzionale, qui invece si fa tutto per legge ordinaria. Quindi serve chiarezza prima, non dopo l’approvazione della legge.

L’arco delle materie oggetto di autonomia la convince?

Poco. Alcune, come energie e reti di comunicazione, le ritengo inadatte alla dimensione regionale. Su altre, come il credito, ci sono ormai ampie competenze europee e sovranazionali.

Ci sono le garanzie offerte sui Livelli essenziali delle prestazioni, i Lep. Non sono sufficienti?

I Lep hanno una funzione unificatrice nei servizi resi ai cittadini, non sarebbero ammissibili diversi livelli di prestazioni a seconda dei territori. È chiaro che vanno stabiliti prima, evitando che la loro determinazione diventi un altro luogo di esercizio del potere. Come pure presuppongono, e non sostituiscono, gli interventi finanziari aggiuntivi necessari per superare gli squilibri sociali e economici tra i diversi territori.

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