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Povertà, fragilità e solitudini. E tanto silenzio. È questa l’atmosfera che si respira nell’accampamento autogestito da un gruppo sempre più nutrito di senza dimora in piazza Carbonari a Milano. «Sono sceso alla fermata del tram 5 sul cavalcavia di viale Lunigiana per andare verso viale Sondrio e prendere l’autobus 90 o 91, il primo che sarebbe arrivato, per trascorrere al caldo la notte. Una settimana fa mi sono accorto delle tende sul prato, ho chiesto a qualcuno come funzionava e da allora dormo qui» racconta Hamza, arrivato a Milano dal Marocco 8 anni fa e che ha perso il lavoro perché l’officina per auto in cui lavorava ha chiuso i battenti sei mesi fa. Questo è il suo primo inverno per strada, come per molti degli “abitanti” di questo campo che cresce silenziosamente in una Milano contraddittoria, che sogna l'Europa e mentre sale in verticale a vista d’occhio con i suoi grattacieli, rischia di lasciare gli ultimi all'angolo. E con la crisi economica, la pandemia e il caro energia, il disagio che si annidava in periferia e nelle case popolari, è sempre più sotto evidente ai milanesi.
Anche Mohamed vive in una piccola tendina proprio vicino ad Hamza e insieme si scaldano alla fiamma tiepida di un fornelletto da campo che dicono si trovava nel kit di aiuti che hanno ricevuto dalle unità di strada della onlus Progetto Arca o dai City Angels. Entrambi originari del Marocco, si sono conosciuti perché cercavano un modo per vedere la loro squadra giocare il mondiale di calcio, a bordo della linea 90/91: l'unica filovia rimasta a Milano - insieme alla 92/93 -, la più lunga, che percorre tutta la Circonvallazione cittadina esterna, ma soprattutto l'unico mezzo pubblico che non si ferma mai continuando a girare in senso orario e antiorario per 65 fermate: «Sapevamo che la sera si trasforma in una casa mobile per senzatetto che ci dormono e ci mangiano. Così abbiamo fatto anche noi, quando da novembre è arrivato il freddo. Una decina di giorni fa mentre dormivo mi hanno rubato tutto il poco che ero riuscito a portarmi via dalla casa da cui sono stato sfrattato», aggiunge Mohamed.
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Loro fanno parte di quella maggioranza di persone immigrate regolari che secondo l’ultimo rapporto di Caritas Ambrosiana rappresentano il 56.9% delle persone in povertà a Milano. Eppure anche da questo accampamento di fortuna risulta evidente come sia aumentato il numero degli italiani, passati dal 37.1% del totale del 2019 al 43% di oggi. Marco fino ad agosto era un libero professionista, un idraulico. «Tre anni fa ho divorziato e per via della pandemia ho iniziato a lavorare sempre meno. Sono finito in strada questa estate. Mi sono accampato qui perché non riesco a stare nei dormitori dove non ho spazi miei. Di giorno giro a vuoto e faccio qualche lavoretto in nero per alcuni vecchi clienti. È andando a casa di uno di loro che ho visto l’accampamento, sono tornato nel garage di casa a prendere la tenda che usavo da ragazzo agli scout e sono qui da quasi un mese». Marco ammette di non aver detto a nessuno della sua situazione e mangia come può «con gli avanzi lasciati dai ragazzini al McDonald’s».
Alla vigilia di Natale è andato, insieme ad altre persone del “bivacco”, come lo chiama lui, e più di duemila persone al “Pane quotidiano”, in viale Toscana. Che non a caso sorge sul tracciato delle linee 90/91. Pasta al sugo, latte, panettone. «Per alcuni - dice un’altra persone avvolta in una coperta fin sopra la testa - si tratta delle prime esperienze con i servizi di strada. Li ho portati alla sede di viale Monza di Pane quotidiano. Alcuni non volevano venire, ma la fame vince su ogni umiliazione».
In questa silente folla che aspetta la notte per dormire qualche ora sotto strati di giacche, coperte e tende improvvisate, c’è anche qualche donna «per le quali il terremoto parte quasi sempre dalla famiglia - spiega Agostina Stano, volontaria della onlus di Avvocato di Strada - e la strada è l’ultimo passaggio di una storia iniziata con un divorzio o violenza domestica». Come nel caso di Marzia che è stata alcuni mesi alla casa dell’accoglienza Enzo Jannacci in viale Ortles. «In estate ho scelto la strada e con il freddo ho iniziato a stare la notte sul bus 91, lo preferivo alla 90 perché è un numero dispari - sorride -, ma per una donna è rischioso. Due volte hanno provato ad aggredirmi. Ora pranzo all’Opera Cardinal Ferrari, e passo le giornate sui mezzi pubblici a chiedere l’elemosina. La sera torno al campo: stare tutti insieme mi fa sentire più sicura», conclude Marzia.