La spettacolarizzazione del male è una tecnica sistematicamente usata dai gruppi terroristici. Atti atroci, compiuti contro civili inermi, ripresi e fatti circolare come trofei. Con un obiettivo chiaro: lo sfregio del corpo dell’altro come modo non solo per creare un discrimine netto tra l’amico e il nemico, tra chi sta di qua e chi sta di là, ma per umiliare e annichilire chi sta dall’altra parte.
Moltiplicare l’impatto della violenza attraverso il sistema dei media che – dalle televisioni ai social, come è accaduto anche per l’attentatore di Bruxelles con il suo video inneggiante l’Isis – fanno da cassa di risonanza, sfruttando l’ondata emotiva e lo sdegno generati da atti così scioccanti è un modo per allargare l’identificazione attorno a una causa comune, ma anche per radicalizzare il conflitto, qualsiasi conflitto, allontanando qualunque possibilità di mediazione e negoziazione. Da un lato si sfrutta la propaganda politica delle autocrazie amiche, gestita attraverso i media tradizionali (giornali e tv) e dall’altro si amplificano le azioni, tramite la proliferazione incontrollata delle fake news e dei commenti senza filtro rilanciati dai social. Il tutto nell’ipotesi che la spettacolarizzazione della violenza possa costruire il collante per l’identità di un nuovo popolo che dovrebbe ritrovarsi nella volontà di lottare contro “l’oppressore”. Una tecnica che ha trovato nell’attacco della Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 il suo apice di crudeltà e spettacolarità.
Il calcolo però è sempre sbagliato. Mostrare il male in modo esplicito suscita sgomento e indignazione. Il male non si regge da solo, ma ha sempre bisogno di nascondersi dietro una qualche giustificazione di bene. Quando mostra il suo vero volto – brutale e disumano – esso non può che suscitare un profondo senso di rifiuto. Sono ormai innumerevoli i casi in cui questa strategia si è rivelata fallimentare proprio per chi l’ha pensata. La violenza mostrata si ritorce regolarmente contro chi l’ha compiuta.
Così il barbaro attacco e le azioni di pura crudeltà che sono state compiute dagli uomini di Hamas non giovano affatto alla causa palestinese. Al contrario la indeboliscono, minando i pur fragili percorsi di pace che si è cercato di tenere aperti in questi ultimi anni. E a cui, prima o poi, si dovrà tornare.
Colpito al cuore, adesso Israele – comprensibilmente sotto choc – risponde. Ma c’è da continuare a sperare che la risposta di Israele non si faccia trascinare, come ha scritto anche Edith Bruck – ebrea deportata a Auschwitz e Dachau – nel gorgo della vendetta. La più arcaica delle leggi, quella del taglione, non serve per risolvere i problemi intricati che abbiamo davanti. Al contrario, la sua cecità finisce per rimescolare i torti e le ragioni, in un girone infernale su cui rischia di avvitarsi l’intero pianeta. È la storia che ci insegna che non è questa la via per rendere onore ai tanti ragazzi che sono stati trucidati dall’attacco di Hamas; né tanto meno per risolvere quell’intrico ormai secolare che strozza e avvelena queste terre.
Il punto è un altro. L’attacco di Putin in Ucraina è stato sferrato nel momento in cui gli Stati Uniti avevano abbandonato senza gloria l’Afghanistan. Israele è stato attaccato in un momento di profonda divisione interna. E tutto questo accade quando in giro per il mondo si rafforza la convinzione che il progetto perseguito negli ultimi decenni – andato sotto il nome di globalizzazione – è ormai fallito. E dalle sue rovine sgorgano ora fiotti di odio che rischiano di trascinare il mondo in una spirale distruttiva di cui non si riesce a vedere la fine.
Serve un’altra idea di mondo che non sia quella che oggi si fa strada da tutte le parti, e cioè che le controversie possono essere risolte dallo scontro armato. Dalla guerra. È questo che vogliono i terroristi e i dittatori, da sempre: trascinare con i loro disegni criminali il mondo intero nella spirale bellica.
Creare caos, distruggere la legalità, suscitare inimicizie, cancellare l’umanità. Il punto solido di resistenza che va cercato sta tra la capacità di non accettare il dilagare della violenza – e quindi respingere questi atti illegali, immorali e inumami – e il riconoscimento della necessità di trovare soluzioni che finora sono mancate per i tanti focolai di tensione che ci sono in giro per il mondo.
Questa capacità spetta alla politica, che è chiamata in causa per immaginare soluzioni laddove fino ad adesso abbiamo fallito. «La politica è l’arte dell’impossibile», diceva Vaclav Havel. E oggi più che mai ne abbiamo bisogno.