martedì 15 ottobre 2024
Mario Battiato Musmeci è dirigente in due istituti comprensivi: «La cittadinanza è anche un incentivo a partecipare ai corsi fin da piccoli»
Il preside Mario Battiato Musmeci

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«Si dice che il meglio è nemico del bene: lo Ius Scholae non sarà perfetto, ma sarebbe comunque un passo avanti per far sì che chi frequenta le nostre scuole elementari e medie diventi cittadino italiano almeno entro le superiori», Mario Battiato Musmeci è il preside di due istituti comprensivi – Gandhi e Mascagni – che accolgono in totale circa 2.300 alunni dai 3 ai 14 anni in una delle città più multietniche d’Italia, Prato. Dal suo punto di osservazione, l’ipotesi di una nuova legge sulla cittadinanza è una questione dai risvolti concreti, al di là delle ideologie. «Molti alunni extracomunitari sono nati e cresciuti a Prato, parlano persino il dialetto, ma hanno bisogno del visto per andare in gita dentro l’Unione europea. Lo Ius Scholae risolverebbe tanti problemi burocratici come questo» spiega.

L’ideale, attualmente irraggiungibile secondo il preside pratese, sarebbe invece uno Ius soli temperato sul modello di altri Stati europei, che a determinate condizioni permetterebbe ai nati in Italia da genitori stranieri di acquisire la cittadinanza già da piccoli. Nell’attesa, spiega, bisogna però cogliere la palla al balzo e arrivare alla migliore soluzione possibile. «Nelle scuole che dirigo, per motivi culturali circa la metà delle famiglie non italiane preferisce non mandare i figli a scuola fino ai sei anni di età. Se la legge concedesse la cittadinanza dopo cinque anni di studi in Italia a partire dalla scuola dell’infanzia, avremmo uno strumento in più per aumentare la partecipazione di tanti bambini».

Nei 13 plessi guidati da Musmeci convivono una sessantina di etnie. La maggioranza degli stranieri sulla carta è di origine cinese. In uno dei due istituti comprensivi la percentuale di non italiani supera il 70%. Con tali numeri la soglia massima del 30% di alunni stranieri per ciascuna classe – stabilita con la legge Gelmini – non può che essere disattesa, dato che prevale il diritto alla formazione di rango costituzionale.

«Se dovessi applicare quei limiti senza alcuna deroga, non potrei formare le classi. Alcune sono composte per l’85% da cinesi contro il 15% di altre nazionalità, tra cui quella italiana». Tuttavia, la maggior parte di questi studenti stranieri parla l’italiano come prima lingua. Favorire l’acquisizione della cittadinanza permetterebbe dunque l’emersione di questi connazionali di fatto, facilitando anche il rispetto delle soglie scolastiche. Per aiutare i dirigenti nella gestione degli istituti con predominanza di stranieri «i limiti andrebbero messi piuttosto sul numero di alunni non italofoni» in modo da distribuirli equamente e facilitare l’apprendimento della lingua: un elemento imprescindibile per ottenere la cittadinanza e integrarsi realmente.

«Se potessi garantire agli studenti non italofoni un corso di 18 ore a settimana durante l’orario scolastico per tutto l’anno, tenuto da docenti specializzati nell’insegnamento dell’italiano agli alunni stranieri, potrei dare una formazione linguistica degna di questo nome – aggiunge Musmeci – . Invece disponiamo solo di corsi supportati dal Comune, di massimo sei ore a settimana e della durata di un paio di mesi, sufficienti a mettere il bambino in classe e farlo lavorare con gli altri, non di certo a parlare la lingua».

Il preside non nega che multietnicità vuol dire anche complessità. Nelle sue scuole non mancano famiglie italiane che «di fronte a classi con 22 stranieri su 24 chiedono il nulla osta per spostare i propri figli». Il genitore a volte teme che un contesto del genere non favorisca un buon percorso per il bambino, «ma in realtà è solo un arricchimento dato che crescerà in un Paese già multietnico». Secondo il preside, la multiculturalità della scuola può diventare dunque un’ottima palestra di inclusione, «non solo per i piccoli, che le differenze spesso neppure le vedono, ma soprattutto per i genitori con i quali invece va fatto un vero passaggio culturale». Un cammino che sentendo il dibattito pubblico sembra appena all’inizio, non solo a Prato.

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