I negoziati sono «sostanzialmente fermi» ma, passate le elezioni mid-term negli Usa, si riapre una "finestra" per puntare a chiudere l’accordo nel 2015. È la convinzione di Carlo Calenda, il vice-ministro dello Sviluppo economico che segue per l’Italia questa partita piena di ricadute per il nostro sistema economico. E che invita con decisione a sgombrare il campo dai «falsi miti» che, a livello d’opinione pubblica, rischiano d’intralciare ancor di più un cammino già impervio. «Lo ripeto a chiare note – scandisce nel suo ufficio di via Veneto –: con il Ttip non entreranno da noi il manzo agli ormoni, il pollo trattato con la clorina e gli Ogm. Nemmeno se gli Usa lo ponessero come condizione vincolante».Ma a che punto sta il negoziato?A un punto fermo. Ci eravamo fissati il 2014 come anno dell’accordo, ma così ovviamente non sarà. Malgrado un anno e mezzo di lavori preparatori e 7 round negoziali – l’8° è previsto a fine anno –, siamo in ritardo perché la situazione è peggiorata notevolmente, effetto anche di un quadro geopolitico sempre più complesso. Così corriamo però un rischio.Quale?Gli Usa si stanno orientando sempre più nel dare la priorità al Tpp, il parallelo negoziato con 11 stati dell’area del Pacifico. Ora, dobbiamo chiudere nel 2015 perché poi l’anno dopo tutto si potrebbe bloccare per via delle presidenziali negli Usa. Se invece arriviamo al 2017 o 2018, ci confronteremo con degli Stati Uniti che saranno cresciuti più di noi, dotati di un forte surplus energetico e con un accesso per i loro prodotti ad un più ampio numero di mercati. Quindi la posizione dell’Europa sarà ancora più debole.Si dice che, col Ttip, il nostro Pil potrebbe salire di almeno lo 0,25%, si parla di nuovi posti di lavoro. Non sono eccessi di ottimismo?Lo 0,25 è la stima più prudenziale. Ma al di là di questo, può essere un buon affare per ambo le parti. In America stiamo già crescendo molto come esportazioni, ma per l’Italia rimane un potenziale aggiuntivo di quasi 10 miliardi, pari al totale del nostro export verso la Russia.
Non trova che in Italia il mondo politico stia parlando troppo poco del Ttip?Sì, è così. Ed è un segnale di scarsa attenzione che, per un Paese dipendente in larga parte dalla crescita dell’export, è miope.Come se la spiega?È stato lasciato campo libero a una rappresentazione mitologica che si è nutrita di un anti-americanismo che è più forte di quel che si pensa. Tutte le paure messe in circolo sono ingiustificate, però. Per questo, nell’ambito della presidenza italiana, ho deciso di puntare sulla trasparenza massima, chiedendo di desecretare il mandato negoziale, dove peraltro si chiarisce fino a che punto le paure siano ingiustificate; i servizi pubblici, cultura, ogm, non saranno in alcun modo toccate dal negoziato. Così come chiederò di rendere pubblica una sintesi dei prossimi round.L’altro punto contestato riguarda i prodotti alimentari.Anche qui – lo ripeto – noi non rinunceremo al principio di precauzione: cioè si può fare entrare un alimento solo quando ci sono le prove scientifiche che esso non è dannoso. Per l’Italia poi, nello specifico, c’è la questione dell’italian sounding, cioè la lotta a quei prodotti che sembrano italiani ma non lo sono. Non possiamo vietare l’uso di nomi italiani da parte di produttori americani, possiamo però pretendere che sia evidente l’origine del prodotto e che siano riconosciute le nostre più importanti indicazioni geografiche. Anche se su questo ultimo punto gli americani sono estrememente rigidi (sull’apetto specifico dell’etichettatura torneremo nella prossima puntata dell’inchiesta, ndr).Scusi, allora perché gli Usa insistono sul tenere l’agro-alimentare nel Ttip?Perché noi abbiamo tariffe molto alte che potrebbero essere eliminate nell’ambito di un accordo complessivo sui dazi.E gli Isds, questi arbitrati per risolvere le controversie fra investitori e Stati? Non rischiano di ledere il diritto nazionale in materie-chiave?L’ultimo Consiglio Ue ha fatto emergere delle sensibilità molto diverse. Francia e Germania hanno un’avversione molto forte agli Isds, clausola che però è attiva in 1.400 accordi bilaterali della Ue e che viene esercitata spesso proprio dalle aziende europee. Occorre limitarne l’applicazione sostanzialmente ai soli casi di discriminazione e di mancato risarcimento in caso di esproprio.A torto, secondo lei?Sugli Isds non possiamo cambiare il principio. Noi oggi stiamo negoziando anche con Cina e Vietnam, rispettivamente un accordo sugli investimenti e uno di libero scambio. Come potremmo chiedere a loro, che hanno una fortissima presenza dello stato nell’economia e dove il rischio di discriminazione è elevato, di inserire questa clausola nel trattato dopo averla esclusa da quello con gli USA?
Ma perché ritiene così fondamentale il Ttip?Oggi siamo entrati nella seconda fase della globalizzazione, con un aumento dei consumi nei nuovi mercati emergenti, che rappresenta uno sbocco strutturale sempre più importante per le nostre imprese. In parole semplici stiamo iniziando ad incassare il dividendo degli investimenti fatti nella prima fase. Ma c’è una condizione indispensabile perché ciò si verifichi e cioè che il processo di apertura dei nuovi mercati non si arresti. Purtroppo invece ci sono molto segnali che i Brics stiano puntando a trattenere all’interno dei propri confini i vantaggi che derivano dalla crescita degli ultimi due decenni, cercando di a soddisfare in proprio il bisogno di consumi della nuova classe media. Invece dobbiamo spingere i Brics ad aprirsi ai nostri prodotti e, se non chiudiamo il Ttip, questa operazione sarà più difficile.Ora come procedere?Una volta abbattuti no pregiudiziali, occorre cambiare il metodo del negoziato. Anziché tenerlo fermo per anni si può pensare di chiudere un "interim agreement" che comprenda almeno l’azzeramento delle tariffe, la convergenza degli standard nei 6 settori dove c’è già intesa (chimica, auto, farmaci, cosmetica, tessile-abbigliamento, dispositivi medici), l’accesso minimo agli appalti pubblici americani, l’energia, procedure doganali facilitate per le Pmi. Un accordo che è alla nostra portata e che eviterebbe uno slittamento della chiusura a dopo le lezioni americane.