Un grande statista che ha dato lustro alla politica estera dell’Italia. Così l’ex presidente libanese Amin Gemayel ricorda Giulio Andreotti. Al Paese dei cedri Andreotti aveva testimoniato, in piena guerra, il proprio attaccamento presentando il libro di Bernardo Cervellera “Libano, la pace futura”. A lui premeva, vi scriveva, favorire condizioni che permettessero di ristabilire quel modello di convivenza che rappresentava il Libano, ma era convinto che la crisi libanese non poteva essere isolata dal contenzioso mediorientale e cercava di impegnare l’Italia sui due binari paralleli.
Presidente Gemayel, Andreotti si è recato in Libano subito dopo la sua elezione nel settembre 1982...Esattamente. Ma quello non fu il nostro primo incontro perché l’avevo conosciuto tre anni prima in Italia. Alla mia elezione, l’aeroporto di Beirut era ancora chiuso al traffico e Andreotti ha dovuto atterrare a Cipro, per raggiungere poi il Libano a bordo di un elicottero militare. L’Italia partecipava alla Forza multinazionale ed era normale mantenere i contatti ad alti livelli.
Quali temi stavano al centro dei vostri colloqui?L’Italia, grazie al duo Andreotti-Craxi, si era mossa per creare le premesse alla normalizzazione del nostro Paese non solo favorendo la riconciliazione tra i libanesi, ma lavorando anche al riavvicinamento tra noi e i palestinesi. L’Olp di Arafat si fidava molto di Andreotti.
Lui era infatti il promotore della cosiddetta politica “filo-araba” dell’Italia...Come capo della diplomazia, ha voluto piuttosto avere buoni rapporti con tutti. In effetti, con lui l’Italia ha saputo aprirsi nuovi orizzonti nel Mediterraneo e nel mondo. Ma non dimentichiamo che la presenza italiana in Libano non era ridotta alla presenza militare. Gli italiani erano, infatti, attivi anche in campo economico e degli aiuti umanitari.
Andreotti racconta di essere rimasto colpito da una lunga descrizione che Assad padre gli fece sulla figura di San Marone, «meravigliato che io, cattolico, lo conoscessi così poco». Di Andreotti il cattolico, ricorda qualcosa?Non abbiamo affrontato temi religiosi, ma sapeva benissimo che sono cattolico praticante e mi rispettava anche per questo. Conosceva poi la “saga” della mia famiglia e si rendeva conto che portavo addosso le preoccupazioni dei cristiani libanesi.
Avete mantenuto i contatti dopo il suo “ritiro” dalla vita politica attiva? Certamente. L’ultimo nostro incontro risale a due anni fa. Sono andato a trovarlo nel suo ufficio al Senato e quella fu per noi l’occasione per rispolverare i nostri ricordi.
Un ricordo in particolare?Una lettera di “rimprovero” che mi ha mandato per aver trascorso un weekend libero in Italia senza contattarlo. I suoi assistenti sono rimasti una volta sorpresi nel vederlo abbracciarmi e coprirmi di baci. Si vede che era riservato con i suoi ospiti. Con me, invece, ha infranto il protocollo.
Questione di differenza di età?Anche. Quando sono arrivato alla presidenza avevo appena 40 anni, Andreotti 63. Il presidente Pertini, che invece ne aveva 86, mi chiamava “nipotino”.
Se dovesse presentare la figura di Andreotti in poche parole, cosa direbbe?Un diplomatico di primo piano e un europeista all’avanguardia.