
Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron in un confronto a due durante il vertice sull'Ucraina all'Eliseo - Ansa
Quando inizia il vertice informale di Parigi Giorgia Meloni non è tra i leader accolti da Emmanuel Macron. Sono le quattro del pomeriggio ma la premier, fa sapere lo staff dell’Eliseo, «è attesa per le 17». Non è il ritardo messo in conto domenica, quando si era prospettato un arrivo attorno alle 18 e in ballo c’era persino l’ipotesi di una partecipazione in remoto. Ma è comunque un ritardo, con il quale Palazzo Chigi potrebbe aver voluto mandare un segnale al presidente francese per ribadire l’insofferenza nei confronti di un’iniziativa non concertata e che, ad avviso di Palazzo Chigi, andava organizzata a Bruxelles. In ogni caso, poco prima dell’orario annunciato, il capo dell’esecutivo arriva e, a meeting concluso, è l’unica a essere accompagnata fino all'auto da Macron, con tanto di abbraccio di commiato e annesso scambio di baci.
Il summit era anche l’occasione, per parte italiana, per rilanciare il ruolo di Roma come ponte tra l’Ue e gli Stati Uniti e la premier, stando a quanto filtrato, non se la sarebbe fatta scappare, chiarendo la sua contrarietà a un «formato anti-Trump» per i negoziati e palesando la convinzione che gli Usa stiano lavorando per «giungere a una pace in cui noi dobbiamo fare la nostra parte».
La spaccatura che si è registrata all’Eliseo riguarda soprattutto il come partecipare ai negoziati o piuttosto come far pesare l’Unione nella partita che coinvolge Usa, Mosca e Kiev. La partecipazione militare a un’eventuale missione di peace keeping è un’opzione rischiosa per Meloni , convinta che sia «la più complessa e la meno efficace». Soprattutto senza adeguate «garanzie di sicurezza» per Kiev, mancando le quali, è il ragionamento della premier, il negoziato rischierebbe di fallire. Il presidente del Consiglio ha esortato perciò a «esplorare altre strade» e soprattutto a farlo coinvolgendo sempre gli Stati Uniti perché «è nel contesto euro-atlantico che si fonda la sicurezza europea e americana».
Il fatto che Macron abbia allargato il vertice estendendo l’invito inizialmente destinato solo a Germania, Gran Bretagna, Polonia e Italia (il formato Weimar plus) è stata una mezza vittoria di Meloni, che però avrebbe voluto al tavolo anche i leader dei paesi baltici e non ha mancato di sottolinearlo. Allo stesso tempo, la presenza del segretario generale della Nato, Mark Rutte, e dei vertici Ue, Antonio Costa e Ursula von der Leyen (così come l’inclusione di Spagna, Olanda e Danimarca) l’ha costretta ad essere lì, nonostante lo scarso preavviso e la voglia di non assecondare la mossa di Macron. Peraltro, mentre il leader spagnolo Pedro Sanchez, quello inglese Keir Starmer e il polacco Donald Tusk hanno tutti rilasciato dichiarazioni, lei è stata l’unica a non farlo, tradendo una certa disapprovazione anche nelle foto scattate al tavolo. Già nei giorni scorsi, Meloni aveva accuratamente evitato di parlare sia dopo il tentativo Usa di estromettere l’Unione dalle trattative di pace, sia dopo le parole a Monaco del vicepresidente americano, J.D. Vance (in parte condivise, però), e le aperture nei confronti dell’Afd, il partito dell’estrema destra tedesca. Una cautela che le è servita a evitare di increspare gli ottimi rapporti con il tycoon di New York. Nel frattempo, però, ha affidato ad Antonio Tajani il compito di assicurare all’Italia un qualche ruolo nella complessa partita per la pace. Il capo della Farnesina, sabato, ha incontrato sia il segretario di Stato americano Marco Rubio, sia l’inviato di Washington per l’Ucraina, Keith Kellogg, e si è detto fiducioso sul possibile coinvolgimento dell’Europa nei negoziati. Difficile capire per ora quali siano le reali possibilità che le cose andranno davvero così, ma se le speranze di Tajani dovessero concretizzarsi, Meloni potrebbe uscirne decisamente rafforzata.