giovedì 27 giugno 2024
"Top Jobs", la premier prende le distanze dall'accordo tra popolari, socialisti e liberali. Ma si tiene le mani libere per sostenere VdL a Strasburgo. Salvini attacca: "Colpo di Stato a Bruxelles"
Meloni al Consiglio Europeo

Meloni al Consiglio Europeo - Ansa

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Al termine di una giornata lunga e nervosa, il pacchetto di nomine per i vertici dell'Unione Europea passa nella notte ma con il distinguo italiano. Luce verde dunque del Consiglio Ue per la popolare tedesca Von der Leyen alla guida (per la seconda volta) della Commissione Ue, per il socialista Costa, portoghese, che guiderà i vertici dei Ventisette e per la liberale estone Kallas, indicata come Alto rappresentante per la politica estera.
Giorgia Meloni, però, presidente dei Conservatori europei (Ecr), prende le distanze da un accordo che vede protagonisti i leader popolari, socialisti e liberali. La premier si astiene su Von der Leyen, mantenendosi dunque le mani libere per votarla, eventualmente, nella seduta dell'Europarlamento di Strasburgo del 18 luglio. E dice "no" sia a Costa sia a Kallas, in quello che è stato - era una delle ipotesi della vigilia - un voto spacchettato sui tre diversi incarichi. La premier italiana supera Orban in radicalità: il leader magiaro infatti vota contro Von der Leyen, a favore di Costa e si astiene su Kallas. L'altro leader conservatore presente tra i Ventisette, il ceco Fiala, invece dice "sì" al pacchetto.

Dopo il voto, Palazzo Chigi ha fatto sapere che "nel quadro delle votazioni in Consiglio Europeo sulle nomine dei nuovi vertici, il governo italiano ha ribadito la propria contrarietà al metodo seguito nella scelta da parte dei negoziatori Ppe, Socialisti e democratici e Renew, esprimendo voto contrario ai candidati a presidente del Consiglio Europeo, Antonio Costa e a Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Kaja Kallas. Per quanto riguarda la nomina di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione Europea si è deciso per un voto di astensione nel rispetto delle diverse valutazioni tra i partiti della maggioranza di governo, e nell'attesa di conoscere le linee programmatiche e aprire una negoziazione sul ruolo dell'Italia". Quando parla di differenti valutazioni nella maggioranza, Meloni si riferisce al fatto che Forza Italia fa parte del Ppe e quindi "esprime" Von der Leyen, mentre la Lega di Salvini fa parte della famiglia di Identità e democrazia, che non vuole il bis della politica tedesca. La nota di Palazzo Chigi fa intendere che ora la vera partita dell'Italia consiste nella casella da commissario europeo che sarà affidata a Roma. Mentre il voto di Fdi e dei Conservatori europei (ma non tutti, il gruppo sembra essere in crisi interna) dipenderà dalle aperture programmatiche di Von der Leyen, che si avvia verso il bis.

Poco dopo la nota di Palazzo Chigi, Meloni aggiunge sul social X: "La proposta formulata da popolari, socialisti e liberali è sbagliata nel metodo e nel merito. Ho deciso di non sostenerla per rispetto dei cittadini e delle indicazioni arrivate con le elezioni. Continuiamo a lavorare per dare finalmente all'Italia il peso che le compete in Europa".

Prima di rientrare a Roma la premier ha tenuto un punto stampa notturno, in gran parte dedicato al caso di Gioventù nazionale. Meloni ha difeso le sue scelte in Consiglio Ue aggiungendo che "sarebbe vergognoso se qualcuno volesse farcela pagare, ma lo escludo". "Voi pensate - ha detto Meloni - che bisogna accodarsi per uscire dall'isolamento, io penso che si sia decisamente meno isolati quando si ha la capacità di esercitare una leadership. Io credo che questo sia il ruolo dell'Italia, e non accordarsi. Quindi con franchezza quando sono d'accordo lo dico, quando non sono d'accordo lo dico". Quanto a Von der Leyen, discorso ancora aperto ma "dipende dalle politiche".

Quasi in contemporanea il cancelliere tedesco Scholz la gelava rallegrandosi del fatto che "la destra populista" sia "fuori dall'intesa". Al contrario Von der Leyen, parlando alla stampa, ha ribadito che per lei "è molto importante lavorare con l'Italia" e nei prossimi giorni parlerà "con le delegazioni nazionali al Parlamento Europeo".

​La giornata della premier tra le sponde di Tajani, Salvini che parla di "colpo di Stato" e Schlein che le alza muri

Alle 20.15, quando stava per iniziare la cena sui “top jobs”, sugli incarichi apicali dell’Unione Europea, lo staff di Giorgia Meloni lasciava trapelare l’unica indiscrezione di giornata: «La nostra posizione di partenza è il “no” o l’astensione» al pacchetto concordato da popolari, socialisti e liberali. Era, appunto, la posizione di partenza di una cena-vertice che si è prolungata sino a tardi. Vi era la possibilità che il Consiglio Ue esprimesse un consenso sul pacchetto senza ricorrere a un voto, ma evidentemente il malcontento dei leader di destra esclusi di fatto dai negoziati ha portato, alla fine, a contarsi.

La premier ha passato la sua giornata seduta davanti a un bivio. Alla sua sinistra si è ritrovata, forse tardivamente, un Ppe prodigo di complimenti, carezze e mani tese. A cercare di reindirizzare il corso degli eventi è stato con più interventi un prolifico Antonio Tajani, che spalleggiato da Manfred Weber interviene svariate volte durante la giornata per ribadire lo stesso concetto: «È stato un errore non aver interloquito prima con l’Italia». Tajani indica una strada che poi si concretizza negli interventi dello stato maggiore popolare, comprensivo anche di chi, come Tusk, è meno propenso a un dialogo stretto con l’area politica della premier italiana. «Al Parlamento europeo - spiega il vicepremier italiano - bisogna avere la certezza che Von der Leyen passi a voto segreto: nel 2019 Angela Merkel chiese il consenso dei Conservatori per lei. Ho invitato tutti a grande prudenza e grande attenzione».
Parole da tradurre. Secondo Tajani, se prevalesse il veto dei socialisti verso i Conservatori, ribadito anche da Elly Schlein ieri a Bruxelles («abbiamo preso un impegno a dire “no” a qualsiasi tipo di alleanza con il gruppo Ecr guidato da Giorgia Meloni così come con il gruppo Id di cui fanno parte Le Pen e Salvini, piuttosto si allarghi ai Verdi», ha detto la leader dem), non solo si rischierebbe di spingere verso l’isolamento il governo italiano, ma si esporrebbe VdL ai franchi tiratori e si contribuirebbe al compattamento delle destre, ora divise, se così si può dire, tra falchi e colombe.
Meloni tace ostinatamente e con prudenza. In serata, quando lo staff di Charles Michel scende in sala stampa, rassicura i giornalisti sull’approccio «molto collaborativo e costruttivo» di Meloni. Anche la delegazione di Scholz parla di un clima «meno caldo di quello che c’è a Bruxelles». Ma evidentemente erano impressioni destinate a infrangersi contro i fatti.
D’altra parte, i toni si sono alzati già mercoledì alle Camere, con la premier dura nel rivendicare il ruolo dell'Italia, supportata anche dalle parole del Colle circa l'imprescindibile ruolo di Roma negli equilibri Ue.
Di certo un «sì» pieno e solare Giorgia Meloni al pacchetto di nomine non se lo poteva permettere. Per due motivi. Uno interno e uno esterno. Quello interno ha nome e cognome: Matteo Salvini. La sua esternazione delle 19 piomba a Bruxelles come un avviso alla premier italiana. «Quello che sta accadendo in queste ore puzza di colpo di Stato. Milioni di europei hanno votato e hanno chiesto di cambiare l’Europa da tutti i punti di vista e invece cosa ripropongono? Le stesse facce: Ursula Von der Leyen alla Commissione, un socialista al Consiglio europeo, una indicata da Macron per la politica estera», attacca il vicepremier leghista.
Il fattore esterno invece ha il nome e cognome di Mateusz Morawiecki: il polacco ha minacciato di far uscire il Pis dal gruppo Ecr, per andare a costruire una squadra centro-orientale a caratterizzazione geografica. Se Meloni si sbilancia dentro un accordo “di sistema”, rischia di perdere gli alleati in Parlamento.

La scelta finale (un'astensione e due no) consente comunque alla premier di arrivare a metà luglio a Strasburgo senza dire né sì né no all'amica Von der Leyen. E lì, a Strasburgo, che la premier condurrà una nuova trattativa. Per il governo italiano è in gioco la nomina da commissario con portafoglio vero. Per il pezzo di Ecr che la seguirà sono in gioco posizioni parlamentari che implicano un riconoscimento politico.

La moral suasion dei leader Ue dopo le picconate di mercoledì della premier

C'è stato un tentativo di coinvolgere fino all’ultimo Giorgia Meloni, evitare la rottura con un grande Paese fondatore, terza economia dell’Unione. Il Consiglio Europeo ieri si è aperto con il tentativo, soprattutto dei leader coinvolti nel pre-accordo di martedì, di arginare la furia della premier italiana. A nessuno è sfuggito il durissimo discorso di fronte alle Camere a Roma, l’altroieri. Anche se in realtà la maggioranza qualificata rafforzata necessaria per confermare le nomine (20 Stati membri e il 72% della popolazione) era già sicura anche senza l’Italia.

«Non è stata mai la nostra intenzione escludere o offendere nessuno – spiegava il premier greco Kyriakos Mitsotakis, uno dei negoziatori per i popolari –, ho personalmente grande rispetto per il premier Meloni. Sono sicuro che affronteremo queste questioni e preoccupazioni nelle discussioni» al vertice. «Nessuno più di me – dice ancora più diretto il premier della Polonia, Donald Tusk, l’altro negoziatore popolare - rispetta la presidente del Consiglio Meloni e l'Italia. È un malinteso: a volte servono delle piattaforme politiche specifiche (e cioè la “maggioranza Ursula” composta da Ppe, Pse e liberali di Renew, ndr) per agevolare il processo, la posizione comune dei tre maggiori gruppi serve a facilitare il processo. La decisione spetta al Consiglio Europeo. Non c'è Europa senza Italia, non c'è decisione senza Giorgia Meloni. Per me è ovvio». Il cancelliere tedesco Olaf Scholz, uno dei due negoziatori per i Socialisti (insieme allo spagnolo Pedro Sánchez, assente per un lutto familiare e rappresentato proprio dal leader tedesco) attenua il senso del pre-accordo di martedì. «Qui nel Consiglio Europeo a decidere sono 27 Stati membri – ha dichiarato -, il pre-accordo delle tre famiglie «è solo una posizione, la discuteremo con cura tra tutti noi». «Andiamo nella giusta direzione – ha dichiarato il premier croato Andrej Plenkovic, popolare –, in molti siamo in contatto con Meloni». « Dobbiamo fare in modo – avvertiva anche il premier olandese uscente Mark Rutte (negoziatore liberale) - che anche l'Italia si senta ben rappresentata nella nuova Commissione e non solo». «Ci sono – commenta più duro il premier belga Alexander De Croo, pure lui liberale - tre gruppi disposti a lavorare insieme. È così che funziona la democrazia. La democrazia non significa solo bloccare».
Nel corso della serata il clima sembrava relativamente disteso, anche se la questione nomine è arrivata per ultima, nella notte, nel corso della cena. In serata vari diplomatici facevano capire che un’eventuale astensione di Meloni andrebbe più che bene, se poi dovesse arrivare un no «ce ne faremo una ragione». Insomma, ieri sera, il clima sembrava chiaro: si va avanti, con o senza Meloni, anche se sarebbe meglio riuscire a coinvolgerla, e ieri sera cresceva l’ottimismo di un’intesa senza un voto formale. Ma non è stato così, alla fine un voto c'è stato. A inveire, del resto, ci pensa il solito premier ungherese Viktor Orbán. «Gli elettori europei – ha affermato via X - sono stati ingannati. Il Ppe ha formato una coalizione di bugie con la sinistra e i liberali. Non sosteniamo questo accordo vergognoso!». Contraria ieri restava anche la Slovacchia.
Per Von der Leyen la partita si sposta al Parlamento Europeo, dove dovrebbe essere confermata con un voto in aula a Strasburgo il 18 luglio. Rimane l’incertezza per i numerosi, probabili franchi tiratori. La Commissione stima a 40-50 i “franchi tiratori” che, nella “maggioranza Ursula” di Popolari, Socialisti e Liberali di Renew, potrebbero votarle contro. E 399, dunque solo 38 voti di margine rispetto alla maggioranza assoluta di 361, sono davvero troppo pochi. Von der Leyen dovrà trovare voti esterni con accordi sottobanco. Ovviamente, i 24 eurodeputati di Fdi sarebbero una grossa mano, l’alternativa sono i 53 voti dei Verdi, che più volte si sono offerti per entrare in coalizione. Una buona fetta dei Popolari (a cominciare da Forza Italia) dice però di no. Un sentiero strettissimo per la tedesca.

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