Non esiste un «diritto a non nascere se non sano», dunque chi viene al mondo con gravi malformazioni non può rivalersi sui medici che hanno seguito la gravidanza. Lo aveva sancito la Corte di Cassazione, e in modo particolarmente autorevole: con una pronuncia delle sue sezioni unite, la 25767/15. Da quel momento, e per il futuro, sarebbe stato molto difficile contraddire quel principio. È però accaduto che nei giorni scorsi, con pronuncia 13254/2016 della sola terza sezione, gli Ermellini abbiano riconosciuto il diritto di una persona Down a ottenere un risarcimento dal medico che ha seguito la gravidanza. Questa drammatica vicenda umana, miccia di un caso giudiziario non ancora concluso, nasce il 12 settembre 1996 insieme alla piccola Marta: la bimba è affetta dalla sindrome di Down, e la madre accusa il ginecologo di aver omesso alcuni esami che avrebbero potuto evidenziare l’anomalia del feto.
Questa la lamentela della donna: io avevo detto a te, medico, che avrei tenuto il bimbo solo se sano. Diversamente, avrei abortito. Al che, il professionista così le aveva replicato: io ti ho prescritto tutti gli esami richiesti per una gestante della tua età e con il tuo stato di salute, l’amniocentesi che mi rimproveri di non aver disposto è in verità un esame molto invasivo, a elevato rischio, che alla luce delle tue buone condizioni sarebbe stato imprudente disporre. È il 1999 quando il caso entra nella prima aula giudiziaria: il Tribunale di Treviso rigetta le domande risarcitorie dei genitori, costituiti in giudizio insieme alle altre due figlie minori. Nel 2010 la Corte d’appello di Venezia conferma la sentenza. Ma la Cassazione dà ragione alla famiglia, e con sentenza 16754/2012 rinvia alla precedente magistratura perché riconosca un risarcimento a vantaggio sia della piccola sia dei familiari. La Corte d’appello ottempera in parte, e dispone una somma per i soli genitori. Scatta una nuova impugnazione alla Suprema Corte, che viene decisa con sentenza 13254 pubblicata lo scorso 28 giugno: il Palazzaccio ribadisce l’orientamento del 2012, e rinvia di nuovo in Corte d’appello (stavolta a quella milanese) perché quantifichi il risarcimento diretto alla figlia. Le motivazioni? A madre e padre quella nascita ha creato sia danni di natura psicologica, sia l’esigenza di reperire – e pagare – personale che assista la disabile. A sua volta – ed è qui la novità – a parere dei giudici è giusto che quest’ultima benefici di una somma per «vivere meno disagevolmente», così come prevede la Costituzione. Comprensibile. Ma il crinale è sottilissimo.
Gli Ermellini precisano che non si tratta di un diritto a «non nascere». Eppure, se la fonte del risarcimento – ovvero la pretesa inadempienza del medico – non fosse esistita, neppure sarebbe venuta al mondo la piccola: la madre avrebbe infatti abortito. Dunque andrebbe risarcita una persona menomata da una disabilità per il fatto che non avrebbe dovuto nascere. Sempre al riguardo, c’è poi da considerare questo: «La non vita non può essere un bene della vita». Lo afferma il principio di non contraddizione, e lo ricordano anche le sezioni unite del 2015. «Non senza soppesare – pure si legge in sentenza – il rischio di una reificazione dell’uomo, la cui vita verrebbe a essere apprezzabile in ragione dell’integrità psico-fisica». E senza contare che imporre un risarcimento da parte del medico, in questi casi, significherebbe tra l’altro creare lo stesso meccanismo tra figli (menomati) e madri che – pur a conoscenza della malformazione – hanno portato a termine la gravidanza. Il caso farà discutere, e non solo la Corte d’appello.