Ansa
Dovevano essere la risposta al grande dubbio che attanaglia ormai da tre mesi milioni di italiani: chi ha fatto il coronavirus e chi no? E invece il cortocircuito sui test sierologici ormai è chiaro a tutti: lo strumento di indagine sulla presenza di anticorpi nel sangue utile a “scremare” la popolazione (facendone emergere la parte temporaneamente immune, sulla carta) è diventato di fatto una trappola. Colpa della “burocrazia epidemica”: se si risulta positivi al test, cioè, il laboratorio che l’ha effettuato è tenuto a comunicarlo all’Asl di competenza e scatta immediatamente l’obbligo di stare in isolamento in attesa del tampone, l’unico esame in grado di stabilire con certezza se si è ancora infetti oppure no. Un tempo indefinito – appeso com’è al traffico caotico dei tamponi effettuato quotidianamente in ogni Regione, per altro rallentato dalla mancanza cronica di reagenti – in cui infetti, però, non si è ancora per nessuno, a cominciare dal medico di base che dovrebbe emettere il certificato di malattia. Risultato: quarantena in ferie, col rischio che una seconda quarantena possa ricominciare dopo il tampone (se positivo).
Il gioco, è evidente, non vale la candela. Né per le aziende, che ormai in piena Fase 2 hanno riaperto i battenti a quasi tutti i lavoratori, né alle famiglie, che si affannano a far quadrare i conti. Lo sanno anche al ministero della Salute, che da inizio settimana insieme alla Croce Rossa ha iniziato la sua, di indagine sierologica: dagli uffici di Speranza fanno sapere che gli italiani stanno collaborando, che in queste ore le chiamate stanno trovando riscontro, ma le difficoltà sono più di quelle previste. E le risposte sono tiepide. Senza contare l’incertezza dei risultati (ogni Regione fa il suo test, chi pungidito chi con prelievo ematico, tra l’altro a prezzi molto variabili) e il fatto che il fatidico “patentino sanitario” per i negativi, tanto invocato in queste ore da alcune località turistiche, potrebbe scadere già il giorno successivo in caso di infezione.
Ma gli esami sierologici ben presto potrebbero rivelarsi un boomerang anche per il monitoraggio della curva epidemiologica, ingenerando ulteriore caos nel conteggio delle nuove infezioni da Covid: è il caso della Lombardia, che ieri ha concentrato per l’ennesima volta il 65% dei nuovi contagi (384 sui 584 nazionali) e che tuttavia ha fatto sapere come ben 168 di questi riguardino tamponi processati da un laboratorio privato di Bergamo «ed effettuati a seguito di test sierologici fatti su iniziativa dei singoli cittadini che sono stati processati negli ultimi sette giorni».
A precisarlo l’assessore al Welfare, Giulio Gallera (ieri per altro convocato dalla Procura di Bergamo insieme al governatore Attilio Fontana come persona informata dei fatti sulla mancata istituzione della zona rossa di Bergamo): «L’Ats segnala che 118 dei 168 tamponi in questione (circa il 70%) risultano debolmente positivi – ha aggiunto –. Vengono cioè considerati positivi in via precauzionale». Come dire, casi di “serie B”, e che tuttavia rischiano di far sballare il bilancio già complicato della regione più colpita d’Italia. Dove la percentuale di test sierologici positivi, d’altronde, è consistente: dal 10% di Milano fino al 30% di Bergamo secondo i primi dati diffusi da laboratori e centri medici.
Come per la tanto attesa app Immuni, in ogni caso, la sensazione è che i test sierologici finiscano col complicare le cose più che risolverle, o facilitarle. Soprattutto ora che la curva epidemica sta implodendo, rivelando ogni giorno che passa come le misure di distanziamento fisico e l’uso delle mascherine stiano facendo la parte da leoni nella lotta al Covid. E dei milioni di mascherine da smaltire da qui a un anno d’altronde ha parlato per la prima volta preoccupato, ieri sera, il ministro della Salute Roberto Speranza: «Ci sarà un impatto notevole sull’ambiente». Una nuova sfida per il governo, dopo quella vinta negli ospedali: restano poco più di 8mila ricoverati in Italia, di cui solo 505 in terapia intensiva.