venerdì 27 gennaio 2023
Il rischio da evitare è quello di irrigidirsi in narrazioni stereotipate, che allontanino i lager dalla concretezza: invece fu il parto di una quotidianità, vita vera, vita nostra
Bambini rinchiusi nel campo di concentramento Auschwitz

Bambini rinchiusi nel campo di concentramento Auschwitz - Ansa

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Vienna, bouquet di sorprese architettoniche, Prater, Belvedere, Sacher e Strauss, patria di avanguardie e glorie classiche, l’Austria che conoscevo. Non mi ero mai interessato all’area estesa di laghi e montagne, labirinto di identità ostinate e arcaiche. Poi mi sono avventurato sulle sponde del Fuschlsee e ho scoperto un mondo che sembrava uscito dal pennello di Thomas Cole, intrico di strade compresso da boschi e massicci persi uno dentro l’altro fino a rendere quasi inaccessibile il respiro ampio che soffia su ogni singola raccolta d’acqua di questo arcipelago in scala bavarese mano a mano che ci si avvicina a Salisburgo. In queste zone è custodita una piccola perla di grazia e discrezione affacciata sul Danubio. Mauthausen poesia e lager. Sulla strada per il Mauthausen Memorial si trova questa oasi di pace, chissà se il fiume è blu anche per lei, la ciclabile promette soggiorni ecosostenibili, solidali, responsabili e tutto il resto. Avevo prenotato una visita con guida per due a ciò che resta del campo di concentramento perché potesse essere efficace in un tempo ragionevole oltre il quale attenzione e coinvolgimento scivolano inevitabilmente nell’indistinto da troppa esposizione. La cosa non è sfuggita alla signora che ci avrebbe accompagnato. Sullo sfondo semideserto, strascico delle limitazioni Covid ci è venuta incontro perplessa, una visita privata chissà quale sarà il motivo, potevo leggere il suo pensiero. «Come mai questo interesse per i campi di concentramento? ». Avevo accennato con trasporto alle nostre visite ad Auschwitz, Stutthof e Terezín. Per un momento ho avuto difficoltà a spiegare che non c’era nulla da spiegare. Forse eravamo una anomalia per le tassonomie finalizzate a semplificare le rituali somministrazioni pedagogiche. A determinare il suo disagio non erano le mie parole, credo fosse lo sguardo atipico, eredità impalpabile e concreta di Oswiecim, una familiarità inattesa, qualcosa che ancora oggi non riesco a definire ma è fisico, e gli altri se ne accorgono. Come raccontarlo in due parole a chi si sentiva investita comprensibilmente della mission didattica in cui ogni scena, ogni reazione, ogni domanda e ogni risposta hanno una precisa collocazione? Auschwitz nel 2018 ci aveva regalato un mondo nuovo ma non sapevo come dirlo, sarebbe suonato incomprensibile e stranamente fuori posto. La signora mostrava una profonda e commovente dedizione, ciò non toglie che la sua pedagogia e la mia esperienza erano divise da un muro impenetrabile. Quando si parla di memoria della Shoah sembra che tutto debba trovare una sistemazione ortodossa, non sono tollerate onde anomale. La necessità di ordine prende il sopravvento, ma quell’ordine è il cane da guardia vecchio e stanco che finge di tenere a bada il nostro senso di inadeguatezza di fronte al baratro della scelta che è dietro l’angolo ogni giorno e vedrà sempre cadere molti. L’approccio della guida era probabilmente frutto di qualche corso di formazione, di una idea del percorso educativo da proporre ai gruppi, inevitabile semplificazione che rischia di rendere l’esperienza inefficace. Per quanto mi riguarda la Shoah è il terreno dell’uno a uno. A Mauthausen prima di cominciare la visita ci sono state prestate alcune cartoline con immagini del campo in piena attività per la comparazione con l’oggi, riconoscere questo o quel compound, questa o quell’area, il campo da calcio dove le SS giocavano a calcio con le vittime, con gli abitanti della perla, e così via. Un modo per fissare il ricordo del luogo e degli eventi, stimolare la memoria delle informazioni. Se è memoria si dovrà pur ricordare. La mia esperienza, quella che ha cambiato come vedo il mondo nel 2018 e cui devo ciò che è venuto dopo, è stata l’opposto. Oswiecim e Auschwitz “contatto” senza intermediari, niente di esoterico, un contatto a pelle, memoria che non ha necessità di ricordare perché tutto diventa presente di una presenza perenne e indissolubile. Solo dopo ho cercato storie, eventi, documentazioni. Dopo, e non per aiutare la memoria che è diventata il passo di ogni giorno. Ho molti dubbi sulle pedagogie collettive, ciascuno ha un percorso unico e speciale che può condurre alla coscienza, alla salvezza o alla rovina. Se pedagogia deve esserci dovrebbe tenere conto che non è l’informazione a cambiare il corso delle cose e delle vite. Non importa quanto vera, teatrale, tremenda, commovente, dettagliata. È il contatto, che segue le sue strade, nel nostro caso un modo che non era neanche un modo. E’ stato sufficiente stare di fron-te ad Oswiecim, alle baracche, alla piazzetta, alle strade, al cambio, agli autobus, alla birretta sul Sola, tutto ti travolge, quotidiano che in un momento può mutare in devastazione. L’educatore deve costruirsi una immagine di ciò cui vuole educare e scrive una sceneggiatura di se stesso applicata a questa o quella storia. Non importa quanto realistica e suggestiva: può tradursi in un diaframma che facilita l’apprendimento e crea distanza. Il campo di concentramento è semplice e diretto: pudore, barriere, resistenze, fiato e decenza strappati dalla pelle con la forza e l’eccezionalità di una apocalisse che si è servita di zoccoli di legno e stanze da bagno piastrellate per annientare ogni singola persona, ogni storia, tutte degne di racconto, tutte diverse, tutte sante e tutte da redimere. È possibile una pedagogia utile a capire questo? Si può anche solo pensare di rinchiudere la mistica compressa in una contraddizione senza fondo dentro un percorso guidato all’emozione facile e l’orrore? Il pianto non è garanzia di nulla. Himmler piangeva e vomitava, per questo ha inventato le camere a gas. A Terezín ricordo una guida molto giovane, ansiosa di mostrare che sapeva la lezione. Descriveva perfettamente nei dettagli ogni singola tappa della visita incorniciandola in una morale un po’ infantile. Il bugiardino asettico per un medicinale dalla potenza spaventosa cui manca lo strumento di somministrazione. Ho il dubbio che una visita così rimanga per molti un gadget da esibire con circospezione, vista la pruderie inspiegabile che ancora oggi mostra i denti quando qualcuno parla di Shoah, che non sia in un memoriale, in un museo o in un convegno e che non sia qualcuno “titolato” a farlo. Shoah è il parto del quotidiano, non di un ambito privilegiato. Forse proprio questo non mi convince delle pedagogie applicate allo sterminio che ho sperimentato da visitatore: il racconto distante dalla vita ordinaria e dalle cose, per fortuna nostra, così ci piace credere, così credevano i benefattori che barattavano qualche sigaretta in cambio di diamanti ai bordi dell’inferno. Così distante che al bar me ne sono già dimenticato. Invece è vita vera, vita nostra, vita del vicino, Caino e Abele parlano la stessa lingua fino a quando scelgono di non riconoscersi, serve non perdere contatto, la pedagogia, forse, viene dopo. Senza contatto non c’è nulla che riporti in vita il morto, che assolva il nostro consapevole assenso, la omissione, la ipocrisia. Il contatto è misterioso, ha a che fare con il mistero, unica parola che riesco ad avvicinare con discrezione alla Shoah e alla nuova lingua che mi ha regalato Auschwitz.

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