venerdì 22 novembre 2024
Il direttore delle Gallerie racconta per la prima volta la sua concezione di museo come «strumento di riflessione e di accesso alla modernità»
Il direttore degli Uffizi Simone Verde nella rinnovata Sala della Niobe

Il direttore degli Uffizi Simone Verde nella rinnovata Sala della Niobe - Gallerie degli Uffizi

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Il centro della museologia mondiale: è questo che Simone Verde riconosce nella storia e vede nel futuro degli Uffizi. Studi di filosofia teoretica tra Roma e Parigi, un dottorato in antropologia dei beni culturali e diplomato in museologia e storia dell’arte all’École du Louvre, per sette anni alla guida del complesso della Pilotta di Parma, Verde è direttore dell’istituzione fiorentina (su cui convergono anche Palazzo Pitti e Giardino di Boboli) dal febbraio di quest’anno. E per la prima volta racconta la sua visione del più prestigioso e difficile tra i musei italiani.

Verde, cosa sono oggi le Gallerie degli Uffizi?

«Gli Uffizi sono il frutto della stratificazione di tante storie diverse, come spesso accade in Italia, un paese che ha purtroppo stentato sempre a farsi nazione. Questi progetti sono rimasti per la gran parte incompiuti. Partendo da quelli che ci riguardano maggiormente perché più in linea con la nostra identità attuale, nel Settecento troviamo l’idea dell’abate Lanzi di un museo enciclopedico della pittura italiana che, sulla scorta della tradizione trattatistica cinquecentesca, veniva poi sublimata nella lettura illuministica e romantica. Una grande visione culturale, la cui utilità rimane invariata. C’è poi quella, a cavallo tra Otto e Novecento, che voleva gli Uffizi come grande museo nazionale. Il Novecento invece vi ha visto il modello, a mio avviso paternalistico, del museo chiamato a educare il popolo. Se teniamo conto, infine, del fatto che il museo nella sua forma moderna è nato qui, al secondo piano di levante, dove per la prima volta è stata creata una sintesi dei modelli collezionistici europei, ossia lo studiolo italiano, la wunderkammer tedesca e la galleria francese, incarnata nella struttura di una rotonda, la tribuna del Buontalenti, dotata di gallerie laterali, è chiaro che gli Uffizi generano e riassumono dentro di sé tutta la storia della museologia europea».

Se questo è cosa sono, cosa dovrebbero essere?

«In questa natura stratificata si condensano la capacità e il potenziale per gli Uffizi di essere leader del sistema nazionale dei musei e, insieme, di esserne l’ambasciatore nel mondo. Si tratta dunque di configurarsi come un polmone scientifico che consenta alla rete italiana di partecipare al dibattito internazionale. È proprio questa sorta di primogenitura a conferire agli Uffizi la legittimità per essere all’origine di un’iniziativa di vasto respiro sulla museologia e su una riflessione generale sul ruolo dei musei nel mondo contemporaneo. Stiamo infatti lavorando alla fondazione di un centro studi, il cui progetto speriamo possa essere chiuso entro la fine dell’anno prossimo».

Quali sono le basi e le direttrici di questo progetto?

«I musei oggi sono l’unica istituzione presente in tutti i paesi del mondo, anche dove le condizioni sono le più disagiate. Il loro successo è dovuto al fatto di essere riconosciuti come strumenti legittimi di riflessione storica e di accesso alla modernità. Nella società globalizzata e complessa in cui viviamo, frutto anche della problematica espansione colonialistica dell’Occidente, questa capacità di sviluppo e di trasformazione è diventata un patrimonio di tutti i popoli del pianeta. Io sono convinto della giustezza della chiave offerta dalle multiple modernities di Shmuel Eisenstadt. La storia viene riscritta in funzione di una modernità che non è acquisita per sempre ma viene reinterpretata da ciascuno a proprio modo. E i musei sono lo specchio di questa ambizione dei popoli di utilizzare gli strumenti della ragione e dello sviluppo economico e sociale al fine di emanciparsi e di giocare un ruolo da protagonisti. Se i grandi musei aprono sedi distaccate in giro per il mondo, rese possibili dall’enciclopedismo delle loro collezioni, gli Uffizi possono essere l’anima di un centro studi in cui convergono i musei del mondo: proprio in virtù del fatto che dentro di noi c’è la storia enciclopedica della museologia. Si tratta dunque di impostare un piano di ricerca che consenta a una comunità mondiale una comunicazione stabile, ma senza rigidità burocratiche, un confronto operativo, una riflessione ad altissimi livelli. Un think tank in cui siano rappresentati i musei africani, asiatici, delle Americhe, europei».

La sua direzione sta riallestendo nuclei collezionistici o espositivi storici poi smembrati o diluiti. È il caso, ad esempio della Sala della Niobe, inaugurata ieri, ridisposta nella conformazione del 1780, ma con una nuova illuminazione che ne consente una fruizione ideale. È un modo di raccontare la stratificazione storica di cui parlava?

«Se noi dobbiamo rivendicare il ruolo di enciclopedia vivente della storia della museologia e di soggetti attivi del dibattito, dobbiamo sottolineare con chiarezza la molteplicità delle fasi che ci hanno caratterizzato, facendo del museo uno strumento polifonico in cui le diverse fasi della museologia coesistono. Ragione per cui stiamo ricreando una serie di allestimenti storici, spazzati via in funzione di una uniformazione tipica del museo modernista. Abbiamo ricreato il gabinetto dei marmi antichi, stiamo lavorando alla ricreazione del Ricetto delle iscrizioni, uno degli spazi antiquari più importanti del mondo occidentale, così come restaureremo in maniera filologica le sale di Gardella, Scarpa e Michelucci. Ma c’è anche un altro ordine di ragioni. Oggi la storia dell’arte viene riscritta in gran parte in funzione della storia delle collezioni, perché è solo questa a dare atto oggettivo delle dinamiche sociali, culturali e antropologiche che hanno creato e reso possibile i meccanismi di selezione culturale delle produzioni artistiche, su cui poi si è impostata la tradizione storiografica. Il fatto è che da tempo il termine “arte” è in discussione, in quanto storicamente e culturalmente troppo circoscritto. Fino a che punto è valido per assumere in sé le creazioni estetiche, come le ha definite qualcuno, delle diverse culture o delle diverse epoche della nostra stessa tradizione? E si può parlare di creazioni estetiche per oggetti che sono utilizzati per il culto e non per l’apprezzamento? Non è un problema intellettualistico, perché nel momento in cui ci confrontiamo con il pubblico globale dobbiamo assolutamente avere consapevolezza dei termini che utilizziamo».

Qual è la difficoltà nel riuscire a portare tutto questo nell’esperienza del museo da parte di visitatori?

«Ad esempio, riscontriamo problemi nello spiegare alcune collezioni che non rientrano nelle classi della storia dell’arte. Pensiamo al Tesoro Mediceo, il cui spirito è più vicino alle creazioni dell’arte orientale o islamica che al sistema accademico delle belle arti. Il suo obiettivo era dimostrare l’esistenza di Dio attraverso l’esposizione di pezzi da cui emergevano caratteristiche quasi eversive rispetto alle regole di natura, oppure oggetti, spesso anonimi, realizzati con materiali di eccezione. Ecco: l’eccezionalità come manifestazione del divino. Se affrontiamo questi oggetti attraverso gli schemi della storia dell’arte, lo dico provocatoriamente, diventano gioielleria, arti decorative. Invece abbiamo bisogno di comunicarne la natura culturale altra rispetto alla nostra. Le difficoltà di interpretazione, più in generale, riguardano tutta l’arte religiosa. Facendo riferimento agli studi focalizzati su culture diverse dalla nostra – penso ad esempio al campo dell’immaginale che Henry Corbin ha dedotto a partire dall’arte iranica ma fondamentale per quella del medioevo europeo –, riusciamo a recuperare visioni e attitudini che ci permettono di capire molto meglio il nostro stesso patrimonio e recuperare l’intelligenza del nostro passato».

Le città sono saturate dal turismo, e con loro i musei. Il museo è ancora il posto ideale dove poter guardare delle opere d’arte?

«Questo dipende da come noi organizziamo e pensiamo il museo. Se ci riduciamo a valutare il successo di un museo in termini di quantità di ingressi, per cui scaliamo le classifiche, perdiamo di vista l’obiettivo primario. Il numero ha senso nella misura in cui certifica la qualità. In caso contrario sei soltanto una destinazione turistica. È questa la sfida da cogliere, in particolare pensando che il 60-70% dei nostri visitatori proviene da altre nazioni presso cui noi simboleggiamo l’efficienza e la qualità del sistema italiano. Per questo occorre migliorare la qualità degli spazi museali, della mediazione museale e culturale, dei percorsi. Ad esempio stiamo lavorando a una grande sezione di storia delle collezioni, ricca di apparati scenografici tra i quali una riproduzione in scala 1:2 della tribuna, così da consentire alle persone di entrarvi (l’originale è osservabile solo dall’esterno, ndr) ma soprattutto di spiegare la storia e il senso cosmico e spirituale di quello spazio. Ritorno a Corbin, il quale osservava che l’idea di un passato che sta alle nostre spalle è una trascrizione positivistica della visione orientata cristiana. Per le culture premoderne il passato non è dietro le spalle, ma sotto i piedi: perché la direttrice non è orizzontale, ma verticale, connessa con Dio. Stando sotto i piedi, le esperienze sono immanenti al presente. Interpretare i musei anche in questa chiave consente di togliere loro la patina retorica e fare del patrimonio un laboratorio immanente di consapevolezza, di crescita collettiva e quindi di codificazione attiva nella società di un’identità contemporanea».

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