«Vittoria mutilata», fu lo slogan con il quale vennero bollati i trattati di pace che seguirono la Grande Guerra. Uno slogan ingiusto, se si considera che l’obiettivo primario – il compimento dell’Unità nazionale – era stato non solo pienamente raggiunto, ma perfino con margine. Erano di gran lunga di più le persone di lingua tedesca e slava rimaste entro i nuovi confini del regno, rispetto agli italofoni passati sotto la sovranità del neonato Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni (la futura Jugoslavia). Senza contare la conferma dei possedimenti coloniali, in Africa (Libia, Somalia, Eritrea) e perfino in Europa (il Dodecaneso greco). Uno slogan ingiusto, e tuttavia comprensibile se si considerano le aspettative della vigilia e quelle maturate durante il conflitto. In effetti con il Patto di Londra gli alleati si erano presi impegni ancor più “generosi”: all’Italia erano stati promessi non solo Trento e Trieste, non solo il pur tedesco Alto Adige e il pur slavo entroterra istriano, ma anche gran parte della Dalmazia, dove le comunità italiane erano minoritarie anche sulla costa (tranne Zara e pochi altri centri). Non avremmo invece dovuto avere Fiume, che si credeva fosse indispensabile come unico sbocco al mare di un’Austria-Ungheria della quale nessuno aveva previsto il tracollo. A guerra vinta, tuttavia, non solo gli Stati Uniti di Wilson – che non avendo sottoscritto il Patto di Londra non se ne sentivano vincolati, e anzi lo contestavano –, ma nemmeno Francia e Gran Bretagna si dimostrarono altrettanto solerti a far concessioni all’Italia tali da accrescerne il peso internazionale, nel Mediterraneo e nei Balcani. A Roma non pochi settori nazionalisti furono corroborati nelle loro ambizioni imperialiste proprio dalle immani sofferenze di quella Grande Guerra che, vista con il distacco della storia, aveva al contrario mostrato dove portasse il nazionalismo esasperato. Le centinaia di migliaia di morti, di invalidi, di traumatizzati nelle trincee del Carso e dell’Altopiano di Asiago esigevano secondo l’opinione pubblica nazionalista – minoritaria nella società ma di grande visibilità e influenza – “compensazioni” pari allo sforzo prodotto. Vi fu perciò, dopo la guerra, una forte spinta all’espansionismo, un’ambizione da grande potenza che costituì una delle direttrici principali della nostra politica estera e militare fino all’avvento del fascismo, che in un certo senso la inglobò in sé. Ma vi fu anche una tendenza opposta che, in continuità con una certa tradizione liberale e in sintonia con i nuovi soggetti politici di massa – cattolici e socialisti –, frenava l’espansionismo e badava piuttosto a consolidare un nuovo ordine europeo capace di garantire pace e sicurezza. I due filoni s’intrecciarono, si sovrapposero e si contraddissero ripetutamente, privando la nostra azione internazionale di quella coerenza di fondo, indispensabile a ottenere risultati duraturi tanto nell’uno quanto nell’altro senso. Dall’abbandono della conferenza di Versailles da parte di Orlando all’impresa fiumana di D’Annunzio, l’ambizione imperialista produsse molteplici ma disparate iniziative oltre confine, spesso contraddette dall’azione opposta di governi che si succedevano con estenuante rapidità: da Vittorio Veneto alla Marcia su Roma, in appena quattro anni, si alternarono cinque governi e otto ministri degli Esteri. Le iniziative italiane si indirizzarono prima di tutto al confine orientale in via di definizione. Roma si oppose finché poté alla creazione, attorno alla Serbia, di un vasto e popoloso (benché arretrato) Stato slavo: una scelta che sul lungo periodo si rivelò un grave errore, giacché ci inimicammo i nuovi vicini – che al contrario avevano ricercato l’amicizia italiana – senza guadagnarci nulla in termini di “influenza” e di “prestigio”, le due parole chiave per comprendere tante iniziative dell’epoca. Anche il tentativo di annettersi l’Albania, direttamente o indirettamente, si risolse in un radicale dietrofront quando Giolitti, ritornato brevemente a capo del governo, decise di ritirare non solo le truppe che erano state inviate in gran parte del Paese, ma perfino quelle del presidio costiero di Valona che la comunità internazionale ci avrebbe anche lasciato. Il progetto nazionalista prevedeva infatti una vasta manovra di penetrazione nei Balcani da Nord – dall’Istria annessa e dalla Dalmazia pretesa – e da Sud – dal protettorato albanese. Ambizioni che, al di là delle pur consistenti obiezioni in termini di legittimità, si rivelarono presto chimere irrealizzabili. Così come del tutto improprio apparve il tentativo di portare la nuova Austria, il piccolo Stato alpino e repubblicano erede solo nominale dell’impero asburgico, sotto l’ala “protettrice” di Roma, in una pretesa funzione anti-tedesca. Mantenemmo a lungo una vasta e costosissima missione economico-militare a Vienna, senza cavarne alcun rientro. Ancor più velleitario fu il tentativo di imporre un’area d’influenza italiana – senza peraltro che a questo termine si associasse alcun progetto concreto – in Europa centrale: eppure fu per questo motivo che inviammo un corpo di spedizione in Slesia, a interporsi tra tedeschi e polacchi. Ci costò una ventina di morti (più i caduti polacchi) e nessuna contropartita. Così come i quarantamila soldati spediti in Bulgaria e soprattutto come il tentativo di muovere verso l’entroterra turco dai nostri avamposti del Dodecaneso, annesso già nel 1912, e di Adalia, occupata durante il conflitto. Su Adalia, sulla costa meridionale dell’Anatolia, avrebbe dovuto incardinarsi un’altra “area d’influenza” comprendente due terzi della Turchia. Ma l’astro nascente di Kemal Atatürk stroncò rapidamente le nostre ambizioni (così come, del resto, quelle greche e francesi) e ci ritirammo definitivamente nell’autunno del 1922. Fortunatamente nemmeno il progetto di Sonnino, che avrebbe voluto inviare un intero corpo d’armata nel Caucaso, ebbe seguito: non per un soprassalto di buon senso dei nazionalisti, ma perché il suo governo era caduto. E quello nuovo, guidato da Nitti, s’accorse rapidamente che non solo i rischi erano immensi e i potenziali benefici del tutto aleatori, ma soprattutto che non c’erano i soldi per azzardare un’altra avventura da grande potenza.