Vincenzo Consolo riceve nella sua casa milanese. Sono quarant’anni che ha lasciato la sua Sicilia. « La distanza è sempre dolorosa – dice –, ma non v’è mai stato distacco. Non può esservi per uno scrittore che viene da terre così forti come quelle del Sud. Da noi esiste l’emigrazione fisica, non quella letteraria». Prima di sedersi per l’intervista, mostra alcuni libri che conserva in un mobile a parete, libri rari, prime copie con dedica di grandi autori del passato e vocabolari, di arabo, di greco antico, di dialetto siciliano, che sono stati alla base del suo lavoro. Consolo è scrittore umorale, visionario; la sua pagina è attraversata da un profonda vena lirica. Ma Consolo è anche analitico indagatore dell’identità linguistica e spirituale della sua terra. Senza opporsi alla grande tradizione letteraria siciliana, ha puntato a rinnovarla dall’interno, guardando con acutezza all’attualità, avendo ben piantate le radici nella storia.
In che modo la storia oggi può essere per uno scrittore uno spazio ispirativo? «È impossibile leggere il presente senza la prospettiva storica. E più il presente è complesso, come quello del nostro Sud, più lo sguardo storico è fondamentale. Però leggere la storia non significa solo capire la realtà in prospettiva, ma anche individuare in essa quei segni che possano costituire un rinnovamento del presente».
Ma per uno scrittore come si attua questo rinnovamento? «L’invenzione è soprattutto rinnovata coscienza di ciò che si ha, di ciò che si è. È un errore pensare che la scrittura sia semplice improvvisazione dell’animo: la scrittura è anche e soprattutto studio, lettura; se non scriviamo su altre scritture, scriviamo su noi stessi: non siamo uno sguardo nei confronti degli altri e del tempo in cui si vive».
Sembra del resto che il contesto storico- sociale sia stato fondamentale nella storia letteraria siciliana, no? «La particolarità degli scrittori siciliani, soprattutto da Verga in poi, e in genere degli scrittori meridionali, è l’attenzione verso il mondo esterno. Da noi è quasi assente il romanzo d’introspezione psicologica, che appartiene ad altre aree letterarie. Ciò perché la Sicilia ha sempre avuto una storia sociale non felice e questo ha portato i siciliani a chiedersi la ragione di questa infelicità e a cercarne una spiegazione attraverso la scrittura. È dunque soprattutto la produzione letteraria, da Verga a Pirandello, da Vittorini a Brancati, fino a Tomasi di Lampedusa e a Sciascia, a testimoniare della complessa entità della Sicilia, frequentata da civiltà diverse che tuttavia passando per l’isola e pure dominandola hanno lasciato i segni profondi della loro cultura e della loro lingua».
A proposito della sua scrittura, si è parlato in particolare di «letteratura di impegno» . Come sono andate maturando le sue scelte narrative? «Frequentavo l’università, nell’immediato dopoguerra, alla Cattolica di Milano. Erano gli anni in cui si andava compiendo quella che Pasolini chiamava la ' mutazione antropologica' del nostro Paese. In piazza Sant’Ambrogio c’era il Coi, il Centro Orientamento Immigrati . Vedevo quotidianamente masse di contadini che venivano dal Sud. Arrivavano alla Stazione centrale, venivano messi su un tram senza numero e scaricati al Centro, dove venivano sottoposti a controlli e visite mediche e poi spediti in Germania, Francia, Svizzera e in Belgio, nelle miniere di Marcinelle. A centinaia. Uomini cotti dal sole nelle saline e contadini che abbandonavano il mare e i campi: uomini inondati di luce che andavano a lavorare nelle grigie campagne del centr’Europa o nel buio della terra. Quella vista mi impressionò, capii che non si poteva più scrivere come gli scrittori che mi avevano preceduto, da Moravia a Sciascia; che la scrittura non poteva essere più centrale e illuministica, che aveva perso l’infinito che aveva in sé, di cui aveva scritto Leopardi a proposito della nostra lingua, e che occorreva voltare pagina. Uno scrittore può fare molte scelte stilistiche, parlare delle sue angosce esistenziali o inseguire una letteratura fantastica o evasiva o storico- metaforica, ma poi, come dice Roland Barthes, ha il dovere della scrittura di intervento».
Il suo linguaggio è apparso fin dai primi romanzi – e soprattutto ne «Il sorriso dell’ignoto marinaio» ( 1976) che la fece conoscere al grande pubblico – singolare, suggestivo, innovativo. Come è andato formandosi? «La mia ricerca è stata fin dall’inizio indirizzata a sondare i giacimenti linguistici della mia terra, quelli delle lingue più antiche, il greco, il latino, l’arabo, lo spagnolo, il francese, e far riemergere quei vocaboli in disuso o in uso solo nei dialetti, per innestarli nella lingua centrale. Si è trattato di una operazione che nulla aveva a che vedere con il dialettismo delle scritture odierne, suggerito dai mezzi di comunicazione. Il mio processo era in realtà contrario: cercare gli archetipi e i sedimenti del passato linguistico italianizzandoli e organizzando poi la frase in senso ritmico, ricorrendo spesso alle assonanze e alle rime, al passo di una sensibilità interiore».
Cosa consiglierebbe a un giovane scrittore? «Di essere fedele a se stesso, di non cedere alle tentazioni spettacolari, alle sue logiche e alle sue dinamiche, di sentire la responsabilità di essere una voce che per sua vocazione racconta non solo il presente e il passato, ma anche e soprattutto il futuro».