mercoledì 8 gennaio 2025
Più design elegante che mistero e spiritualità negli arredi liturgici progettati da Guillaume Bardet per la cattedrale all’insegna di un vago principio ispiratore di “immutabilità naturale”
Il nuovo presbiterio della cattedrale di Notre-Dame, a Parigi

Il nuovo presbiterio della cattedrale di Notre-Dame, a Parigi - Ansa/Teresa Suarez

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L’imponente cesello cerimoniale andato in scena a Notre Dame, palcoscenico sublime per un défilé osservante dei potenti della terra, ha inteso mostrare al mondo che la grandeur è perfettamente in grado di cancellare le macchie sconvenienti della storia. Tutti allineati, compresi e consenzienti alla corte dello spirito addomesticato in un galateo impeccabile, a memoria eterna (o quasi) di un sodalizio globale che vede un unico perdente: il simbolo, intendendosi naturalmente sul significato di cosa il simbolo debba essere simbolo. Alla rivelazione le fanfare sono straniere, le sanitizzazioni ostili, lo sfoggio del potere, fosse il più magnanimo e ben disposto, distante, quando non del tutto indifferente. Il mondo deve la carezza aspra della incarnazione al suo inevitabile e pedagogico degradarsi, non alla finzione delle utopie cosmetiche, madrine ambite di ogni marcia luminosa verso le costruzioni ideologiche più diverse. Per quanto mi riguarda, a dispetto della commovente devozione e del duro sacrificio di chi ci ha lavorato, la nuova Notre-Dame non regge il confronto con i poveri, consumati, gloriosi resti della sorella oltremanica di Coventry, colpita da una distruzione ben più radicale, il cui recupero non ha rinnegato né nascosto il trauma della storia, poesia di lacrime, spina e interferenza tra la Parola e il mondo. Ne ha assunto il peso per raccontare l’urgenza capace di ribaltare ogni declinazione mistica formato Versailles. Notre-Dame, il corpo ferito e maestoso incastonato sul lato orientale dell’Île de la Cité, era una occasione perfetta per dire nei fatti della speranza che fa suo il dolore e la fragilità, non li nasconde, anzi se ne fa vanto come primo testimone, forma tangibile di un mistero della carne asimmetrico e controverso, novità singolare di una rivoluzione ad alzo zero, il cristianesimo. Al designer Guillaume Bardet è toccata in sorte l’impresa di ideare l’area liturgica, nucleo cruciale di nostra signora e di ogni altra signora della fede. Qui non è minimamente in discussione né chi sia Bardet né le sue indubbie qualità. Il punto è quanto quelle qualità siano ri-uscite a servire un contesto dalle logiche completamente disassate rispetto a un atelier commerciale di Hermès e alle narrative epiche di un qualsivoglia potere temporale. Ricordo le polemiche furiose, dal mio punto di vista prive di senso, rivolte alle trovate estemporanee della inaugurazione alle ultime Olimpiadi, evento necessariamente, orgogliosamente laico, libero per definizione. Per Notre-Dame non ve ne è più traccia, tutti più realisti del re, appiattiti nel consenso generalizzato e acritico tipico di masse che non gradiscono essere infastidite dalla fatica di un dibattito o un confronto e poteri che non intendono mettere in discussione la propria narrazione. Il processo complesso e affascinante attraverso cui il simbolo liturgico può trovare una compiutezza dinamica e focale che sia sintesi dello specifico volto di un luogo sacro, si è declinato nel tempo in un confronto da salone del mobile a rimorchio di questa o quella moda, producendo spesso decorazioni di maniera dal preteso significato didascalico che delineano una chiesa estetizzante erede del minimalismo di seconda scelta, in disperata ricerca di assenso da una società determinata a eliminare le frequenze anomale. Una rivelazione degna di questo nome è disturbo per eccellenza, humus autonomo che genera il suo proprio metodo, sempre destabilizzante e nuovo, che non teme la tragedia, la significa, la mostra a suo proprio vanto. Quando Bardet afferma che voleva «forme naturali che trasmettessero l’idea dell’immutabilità », stigmatizza due concetti in contraddizione con le ragioni più rivoluzionarie della cristianità. Il termine naturale, musicale, green, inclusivo e generico, rimanda a un alveo di convinzioni che sarebbe piaciuto molto a Osho Rajneesh. La mistica dell’incarnazione e il metodo cristiano, con quella accezione di naturale hanno poco a che vedere, non perché in opposizione, ma perché altro e oltre, liberazione possibile dalla griglia oppressiva dei cicli genetici, comportamentali e ambientali che regolano e influenzano pesantemente il quotidiano del mondo animale, vegetale e umano. Della natura, la rivoluzione cristiana, è ipotesi di compimento, non servitù, affrancamento dal labirinto di istinti cui siamo incollati dal fato imperscrutabile. A naturale, Bardet aggiunge immutabile. L’immutabile è inaccessibile per definizione, non ha a che fare con la mia vita, possiamo ignorarci reciprocamente. Incompatibile con la idea stessa di incarnazione, l’immutabilità è un feticcio che assimila il fatto cristiano a un Parnaso impersonale, cristallizzato, privato di quella umanità un po’ cialtrona, divertente e genuina delle divinità greche. Un esempio del lavoro di Bardet sono le suppellettili dell’ultima cena mostrate a Sainte Marie de La Tourette nel 2017. L’intento del design è evidente, un design estetico, perfettamente bilanciato tra austerità e gradevolezza, colto e ammiccante, tra un Henry Moore stilizzato in porzioni bilanciate, amputato del superfluo troppo esuberante da piani di taglio improvvisi, e il silenzio preso a prestito da un Morandi in 3D. Assonanza con Le Corbusier, si è detto. Dimenticando che il complesso di La Tourette attraverso le forme e i ritmi parla di dissonanza e vibrazione, tutto tranne che immutabilità naturale, un esperimento cinetico di percezione scandito in volumi brutalisti bagnati a tratti da campi cromatici come contrappunti di una partitura magistrale dalla inquietudine discreta, dialogo sorprendente e sinestesico scandito nelle metriche irriducibili di Iannis Xenakis. La cena di Bardet è un prodotto di notevole gusto, se si vuole, ma non la chiave d’accesso alla questione simbolico-formale di Notre-Dame. L’altare nuovo per Notre-Dame è piacevole, per certi versi originale, un estraneo elegante dosato con cura, non disturba e non dice nulla del luogo in cui si trova e di cui dovrebbe essere scaturigine, nella carne della sua forma. Il presbiterio con i suoi elementi ha la maniera del cilicio intellettual-chic, ex voto non troppo punitivo per penitenti borghesi e benestanti dalle pelli sensibili. Non trasmette né fastidio né inquietudine, gradevole e composto, un altare statale, drenaggio di identità ed entusiasmo che vedrei perfettamente in un caffè d’autore a Saint-Germain o in un giardino pubblico come scultura. L’autore dice che i suoi mobili per Notre- Dame trasmettono contemplazione e spiritualità e naturalmente è vero, come è vero, in termini generali, per ogni singolo fenomeno del reale. Quale sia questa spiritualità è tutto da vedere. Un inno alla noia politicamente fin troppo corretto per incarnare una rivoluzione che evidentemente ha perso la sua forza, ha smarrito il suo volto, lato client, soffocata in un generico simbolico neutrale. La prossima volta a Parigi proverò nostalgia per il gigante ferito capace di ispirare anche dietro le transenne di un cantiere, e, per avere un qualche rimando di energia vibrante mi fermerò a Place Vendôme dove la gioia di stupire, intrigare, provocare, sparigliare i giochi è intatta, senza alcuna pretesa di essere quello che non è, a favore di mercato, capace perlomeno di farti sentire vivo.

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