John Steinbeck (1902-1968) - WikiCommons
Un itinerario esistenziale che va dalla Salinas Valley, ai lavori saltuari, al giornalismo Fino allo studio di alici e molluschi con l’amico Ed Nella letteratura del Novecento John Steinbeck (1902-1968) è stato il primo cantore dei migranti, degli “scarti dell’umanità” che fuggono verso una terra promessa alla disperata ricerca di un lavoro per sopravvivere e di condizioni esistenziali meno proibitive. Pian della Tortilla (1935), La battaglia (1936), Uomini e topi (1937), Furore (1939), i romanzi più famosi del premio Nobel 1962, raccontano vite, dolori, angosce e speranze di derelitti «sporchi e ignoranti» che, come nel caso del capolavoro The Grapes of Wrath ( I grappoli dell’ira, da noi conosciuto con il titolo Furore scelto da Valentino Bompiani), partono dall’ormai inospitale Oklahoma in carovane di furgoni e autocarri carichi di masserizie per raggiungere le lontane e sterminate pianure della California centrale nelle quali fioriscono insalate, lupini e papaveri rossi e matura l’uva da vendemmiare tra le giovani e pionieristiche vigne.
Un anno dopo la pubblicazione, Furore – con il quale lo scrittore vincerà il premio Pulitzer – diventerà un film diretto da John Ford con Henry Fonda e Jane Darwell, una pellicola che a Hollywood si aggiudicherà due statuette dorate. Quella raccontata da Steinbeck nelle sue opere è un’epica dove gli eroi sono sempre parte di gruppi coesi: famiglie, comunità multietniche, villaggi rurali, contadini in sciopero, bande di barboni, squadriglie di aviatori. È lì dentro che primeggiano personaggi come mamma Joad e il reverendo Casy, il medico dei braccianti Doc Burton, lo scaltro ubriacone Pilon, gli strambi vagabondi George Milton e Lennie Small. Steinbeck “fotografa” la realtà e ad essa si ispira usando il metodo dell’esperienza diretta e scrivendo con lo stile limpido del cronista. Finora nessuno aveva pubblicato, in Italia, la biografia dello scrittore californiano.
E proprio nell’anno in cui nel nostro Paese sono sbarcati più di 150mila profughi provenienti dalle rotte del Mediterraneo o dei Balcani imponendo ai governi nuove politiche di accoglienza e scuotendo le coscienze degli italiani (e degli europei), ci ha pensato Ares, la casa editrice milanese fondata da Cesare Cavalleri e diretta da Alessandro Rivali, a offrire uno spunto notevole di riflessione e conoscenza rilanciando la figura di questo esponente della “Lost Generation” con un volume della collana “Profili” dal titolo John Steinbeck. Voce inquieta del sogno americano (pagine 232, euro 18,00). L’autrice è Fernanda Rossini, insegnante, saggista e traduttrice che già nel 2021 aveva scritto per il medesimo editore il primo completo ritratto italiano di Flannery O’Connor.
Nel libro sul maestro americano, esito di un’accurata ricerca realizzata attraverso lettere, diari di lavoro, ricordi personali di chi lo ha conosciuto e fonti della critica, l’autrice si sofferma sulla vita quotidiana, gli affetti, i sogni, gli errori e i dolori dell’uomo e del genio letterario che alimentò la sua immaginazione da piccolo con le storie medievali di Re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda che gli leggeva la zia, figure che successivamente trasformerà in archetipi della sua narrativa. Figlio di un impiegato del mulino comunale irrequieto e silenzioso e di una donna austera, un’insegnante di tradizione calvinista impegnata in attività caritatevoli e sociali, John fino ai diciassette anni vive con mamma e papà e le tre sorelle in una villa in stile vittoriano nel piccolo centro di Salinas, tra le colline della prosperosa California.
In questo contesto apprende i sani principi borghesi: onorare la famiglia, essere leale con gli amici, rispettare le leggi, amare la patria e ribellarsi alle tirannie di ogni genere. Da ragazzo fa lavori umili nei campi, nelle fattorie e nelle fabbriche, impara a capire il valore del denaro sudato, si iscrive all’università ma non riesce, o forse non vuole, laurearsi. Sin da adolescente dice di voler fare ad ogni costo lo scrittore e impara presto ad ascoltare gli altri e a guardare la realtà in tutti i suoi aspetti, senza censure.
«Steinbeck ha sperimentato l’abbrutimento della fatica e l’importanza di chi è costretto a lavorare per fame – osserva Fernanda Rossini – così chi gli racconta cosa sta succedendo nei porti, nei magazzini di raccolta delle merci, ma soprattutto nei latifondi non si sente solo ascoltato, ma anche davvero compreso». I genitori appartengono a famiglie di immigrati venuti dall’Irlanda e dalla Germania: le loro storie, anzi, vere e proprie avventure, gli ispireranno la trama de La valle dell’Eden (1952), romanzo scritto per i figli, «affinché sappiano da dove vengono».
Tre anni dopo l’uscita del libro, il regista Elia Kazan ne ricaverà un film di successo (un Oscar a Jon Van Fleet come attrice non protagonista e tre nomination), girato proprio nella Salinas Valley, che segnerà anche l’esordio di James Dean davanti alle cineprese.
Diversi personaggi delle opere di Steinbeck, e la stessa filosofia che traspare dalle storie che ha raccontato, hanno come riferimento l’amico Edward Ricketts detto Ed, ecologo e biologo marino, che influì non poco anche nello sviluppo del suo pensiero antropologico e sociologico: con lui spese anni di ricerche per studiare il comportamento dei molluschi e delle alici nel Golfo del Messico imparando così che l’uomo, secondo natura, non è al centro del Creato ma ne è solo una parte. Ricketts morirà nel 1948 a 51 anni investito da una locomotiva mentre attraversa con l’auto un passaggio a livello incustodito.
Steinbeck, dunque, ha scoperto e narrato, scendendo in campo come reporter prima del “San Francisco News” e dopo del “Newsday”, l’altra faccia dell’America tra gli anni Trenta e la guerra del Vietnam. È stato un artefice dell’epopea dei braccianti, in maggioranza stranieri, dei contadini e dei fittavoli ridotti in miseria dalla Grande Depressione, costretti a scappare dalle loro case a causa della siccità, delle tempeste di sabbia che distruggevano le coltivazioni e dell’avvento dei trattori voluti dai latifondisti per aumentare i profitti a scapito del capitale umano. Povera gente, vista dagli altri con diffidenza e ostilità, che si ritrovava a dover vivere in “Centri di accoglienza” formati da baracche di cartone in cui «entrano il caldo, il freddo, la pioggia, i topi», nomadi per necessità «impigriti e instupiditi dall’incuria» che «mangiano male, orinano e defecano all’aperto», affamati che si ammalavano spesso di tifo o pellagra e accettavano di lavorare per pochi spiccioli pur di tirare avanti e nutrire i figli. Odiati, maltrattati, sfruttati ma alla fine vivi. Una storia che si ripete.