Meticciato, identità, dialogo tra islam e mondo moderno: sono i temi che si intrecciano nella ricerca di Daryush Shayegan, considerato il più influente filosofo iraniano. Molto conosciuto in Francia (nei mesi scorsi il suo
La lumière vient de l’Occident, “La luce viene da Occidente”, edito da Aube Nouvelle, ha suscitato un ampio dibattito), ha coniato tra l’altro il concetto di “schizofrenia culturale”. «Sono nato a Teheran, mi sono formato tra Ginevra e Parigi, insegno in un istituto francese della mia città natale. Come molti, vivo a più livelli, in spazi e contesti culturali non sempre coincidenti. So di che cosa parlo, non le sembra?», scherza. Sabato sarà a Spoleto, nell’ambito della sezione “Viaggio in Persia” del Festival dei Due Mondi, per un dialogo con Roberto Toscano, ex ambasciatore d’Italia in Iran (Sala Frau, ore 21,30). Insieme si occuperanno di Omar Khayyam, il grande poeta medievale persiano le cui Q
uartine approdarono in Europa a metà dell’Ottocento, suscitando immediato entusiasmo. «Khayyam occupa un posto molto particolare nel canone poetico persiano – spiega Shayegan –, è l’autore che più di ogni altro si avvicina alla concezione filosofica che, nel mondo greco, fu degli scettici e degli stoici. Altrove, nella letteratura classica persiana, prevale una visione simile a quella dei neoplatonici, per cui il mondo è contemplato anzitutto nella sua qualità ideale. Khayyam, che fu anche un importante matematico e astronomo, esprime un sentimento diverso. Ad appassionarlo non è la perfezione del mondo, ma il desiderio da cui il mondo è attraversato, la sofferenza esistenziale che segna ciascuno di noi».
Un poeta musulmano che insiste nel celebrare il vino: non è una contraddizione? «Per Khayaam ciò che davvero conta è l’istante, il momento che ci permette di entrare in contatto con l’eternità e di sfuggire quindi, sia pure brevemente, dal tempo in cui ciascuno di noi è imprigionato. Il vino, nelle
Quartine, è l’immagine di questa liberazione spirituale, che porta a una condizione analoga a nota alla filosofia greca sotto il nome di
atarassia: l’assenza, cioè, di patimenti e preoccupazioni».
Lei insiste molto sulla continuità fra tradizioni diverse: come mai? «Sono convinto che il dialogo tra culture non si esaurisca sul piano, per così dire, orizzontale. Certo, è importante che avvengano scambi, che si producano fenomeni di meticciato e si elaborino identità plurali. Ma questo non può farci dimenticare che il vero dialogo è di natura metastorica, si svolge nella dimensione in cui i grandi mistici si incontrano tra loro, al di là di ogni distinzione temporale e linguistica. Ci sarà pure un motivo se Meister Eckhart e i maestri sufi sono legati tra loro da una serie di analogie formali che finiscono per comporre una visione comune».
E la contrapposizione tra Oriente e Occidente? «Sono categorie che, in questa prospettiva, perdono di significato. Ma anche le barriere tra scienze esatte e speculazione filosofica tendono a vacillare. Uno dei grandi temi della mistica è proprio quello del tempo, centrale non solo in Khayyam, ma anche in pensatori moderni come Henri Bergson. Oltre che nella fisica quantistica, appunto. In questione c’è sempre l’istante, irripetibile e cruciale».
Scusi, ma allora perché lei elogia la “luce da Occidente”? «Perché, sul piano storico, i grandi cambiamenti mondiali sono sempre stati guidati dall’Occidente: la libertà individuale, l’habeas
corpus, la separazione dei poteri, la coscienza dell’individuo rappresentano ormai un quadro di valori condivisi. Non privo di elementi di criticità, lo sappiamo bene, ma ho sempre presente quel passaggio del
Parsifal di Wagner in cui si afferma che la ferita può essere guarita solo dall’arma che l’ha provocata. Dalle scoperte di Cristoforo Colombo in poi l’Occidente si è trovato a dominare il mondo molto a lungo e una simile supremazia l’ha indotto a sviluppare un forte senso di superiorità. Ma questo non è un buon motivo per mettere in discussione i valori universali che l’Occidente stesso ha consegnato alla modernità».
Con quali conseguenze? «Oggi come oggi le diverse culture sono condannate a conoscersi sempre di più, a studiarsi con maggior attenzione, ad avvicinarsi reciprocamente. La nostra non è l’epoca di Marco Polo, quando le civiltà erano separate tra loro e pressoché inaccessibili l’una all’altra. In questo momento sottrarsi al dialogo comporta il rischio di consegnarsi a rivendicazioni identitarie, che si traducono in intolleranza, fondamentalismo, violenza. Il solo rimedio alla schizofrenia provocata dalla compresenza di culture differenti sta nel prendere consapevolezza di questa condizione plurale, accettando una realtà che è già nostra. E in questo la lezione di un poeta come Khayyam è più che mai determinante».