Il centro di Tel Aviv, capitale ufficiale di Israele - Alamy Stock Photo
Israele e il rifiuto arabo (Einaudi 1969) si intitolava il volume dell’islamista francese Maxime Rodinson. La tesi di fondo era destinata a diventare classica: l’ostilità del mondo arabo era dovuta al fatto che gli ebrei rappresentavano in Palestina una presenza coloniale, l’unica rimasta nel Medio Oriente dopo la decolonizzazione seguita al termine della Seconda guerra mondiale. Peraltro l’emigrazione degli ebrei – aschenaziti dall’Europa centrale e orientale e sefarditi dalla penisola iberica – era iniziata ben prima della nascita dello Stato di Israele il 14 maggio 1948: già sotto l’Impero ottomano e durante il mandato britannico della Palestina (1920-1939) vi furono infatti le cosiddette aliyah – complessivamente cinque ondate migratorie dal 1881 al 1939 – destinate a dare vita ai primi kibbutz comunitari e socialisti, molti dei quali esistono ancora oggi, non senza determinare le prime tensioni con le popolazioni palestinesi. Determinante in questa vicenda fu la pubblicazione nel 1896 del volume Lo Stato ebraico, di cui era autore l’ebreo austriaco Theodor Herzl (1860-1904), giustamente considerato il padre del sionismo moderno. Herzl era animato da spirito pragmatico: per lui il sionismo non era un idealismo teologico, ma una soluzione concreta ai pogrom a cui erano spesso esposti gli ebrei della Diaspora, in particolare nella Russia zarista. Non si può negare, tuttavia, che la nascita concreta dello Stato di Israele sia legata a filo doppio alla tragedia della Shoah. «Se non ora, quando?» è la nota frase attribuita a David Ben Gurion nella sua veste di premier del neonato Stato di Israele, consapevole della sensibilità internazionale sorta dopo la scoperta dei campi di sterminio. Il particolare momento emotivo aveva spinto, infatti, l’Assemblea generale dell’Onu nel 1947 a concepire la spartizione della Palestina in due Stati – uno per gli ebrei nella parte occidentale e uno per i palestinesi in Cisgiordania – trovando di nuovo la contrarietà dei palestinesi. Quanto accaduto il 7 ottobre 2023 per mano di Hamas ha posto ancora una volta all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale la geopolitica mediorientale e, in particolare, il conflitto arabo-israeliano. A questo proposito, il 26 febbraio di quest’anno, il cenacolo Tommaso Moro ha ospitato il seminario “Ebraismo, sionismo, Occidente”, i cui atti sono stati raccolti in volume a cura di Massimo De Angelis sotto il titolo di Il nuovo rifiuto di Israele. Riflessioni su ebraismo, cristianesimo, islam e l’odio di sé dell’Occidente (Belforte Salo-mone, pagine 360, euro 28,00). I contributi sono organizzati in tre sezioni: la prima, intitolata “L’Occidente non capisce più gli ebrei”, si apre con il saggio del curatore, che richiama l’attenzione sulla tendenza del mondo contemporaneo a respingere le identità troppo specifiche; la seconda sezione, il cui contributo d’apertura è firmato da Paolo Sorbi, è dedicata a “Ebraismo e sionismo”, trattando quindi il problema della legittimità dello Stato di Israele; la terza sezione infine ha come titolo “Dialogo in nome di Dio” e insieme a Massimo Cassuto Morselli gli altri contributori ragionano sul dialogo ebraico-cristiano e, più ampiamente, sul confronto fra le tre fedi monoteiste di comune origine abramitica (ebraismo, cristianesimo e islam). Nell’accostarsi al tema, ciò che non si deve mai dimenticare è la distinzione fra antisemitismo e antisionismo: criticare chi ha governato, o governa, Israele è legittimo perché rappresenta una scelta politica e fa parte della libertà d’opinione; altra cosa è un atteggiamento pregiudizialmente ostile nei confronti degli ebrei in quanto tali, perché in questo caso si tratta di una tara illiberale che deve essere denunciata e combattuta con determinazione. In questo senso ci aiuta il già citato contributo di Paolo Sorbi che precisa come «il sionismo sia un movimento di liberazione nazionale, non un movimento colonialista », salvo sottolineare immediatamente come, negli ultimi anni, il ceto politico che guida Israele abbia completamente smarrito la saggezza di Yitzhak Rabin (1922-1995), l’ultimo premier israeliano a credere nella possibilità di una convivenza pacifica con i palestinesi. Tale salto di qualità in negativo ha messo Israele in una postura inedita, alienandogli il favore offerto dalla comunità internazionale all’atto della sua nascita. Quello che un tempo era il “rifiuto arabo”, oggi si sta trasformando in una profonda incomprensione che coinvolge l’Occidente nel suo complesso. La reazione oltre misura del governo Netanyahu alla criminale azione terroristica di Hamas ha generato molte incomprensioni, persino agli occhi del suo principale partner internazionale (Stati Uniti), ma la sensazione è che ci siano ragioni più profonde. Di questo aspetto nel volume si occupa Massimo Giuliani con un contributo intitolato “Occidente moderno e giudaismo: un rapporto complesso”. Alzando lo sguardo dalla cronaca, il primo problema da affrontare è la definizione che si vuole dare all’idea di “Occidente”: Giuliani opta per un radicamento antico e multiforme che comprende la cultura greca, l’influsso religioso del mondo biblico-ebraico ed evangelico- cristiano e la mentalità giuridica e politica dell’Impero romano, fatta propria dagli Stati moderni. La scissione fra ragione e fede alla base del secolarismo moderno ha reso problematica l’identità di un popolo che si riconosce in una matrice religiosa; nello stesso tempo però è non meno problematico il ripiegamento verso l’ortodossia biblica che vorrebbe una “guerra permanente” nei confronti della controparte palestinese. Se da un lato vi è l’inedita alleanza dell’islam sunnita e sciita, che attraverso Hamas ed Hezbollah combatte una guerra comune contro Israele, da parte di quest’ultima la risposta non può essere la guerra civile dei coloni nella Cisgiordania per cacciare i palestinesi dai territori loro concessi dagli Accordi di Oslo del 1993. Forse Netanyahu avrà interesse a tenere aperta la conflittualità per rimanere al potere, così come lo stesso spirito strumentale anima il radicalismo islamico, ma la comunità internazionale – in particolare la nuova leadership americana – non può accettare una logica di questo genere a totale detrimento dalle popolazioni civili.
L’opera Il nuovo rifiuto di Israele, atti del grande convegno di febbraio dove numerosi studiosi di alto profilo si sono confrontati sulla crescente distanza tra lo Stato ebraico ed Europa e Stati Uniti, verrà presentata oggi alle ore 17.00 a Roma, nella sala Isma del Senato della Repubblica, sala Isma (piazza Capranica, 72). Introduce Maria Stella Gelmini, coordina Roberta Ascarelli, ne parlano Rocco Buttiglione, Riccardo Di Segni, Emma Fattorini, Stefano Parisi; saranno presenti il curatore e l’editore. I lavori del convegno saranno trasmessi in streaming al link webtv.senato.it e sul canale youtube del Senato.