L'albero e il presepe allestiti quest'anno in piazza San Pietro in Vaticano - Agenzia Romano Siciliani
Anche stavolta, con il ritorno del Natale, assistiamo alle solite diatribe sul presepe. Viene spontaneo pensarle come parte anch’esse, ormai, delle tradizioni natalizie. Allestirlo o no, nelle scuole che vedono ormai una buona parte degli alunni avere un’appartenenza religiosa non cristiana, o non averla affatto? Fare il presepe per obbligo di legge, come aveva proposto una senatrice, e sanzionare i dirigenti scolastici inadempienti? O delegare la scelta all’autonomia decisionale dei singoli istituti scolastici, sancita dalle norme italiane? È in gioco la cultura italiana o la laicità dello Stato? E, in una prospettiva più ampia, la formazione degli studenti include o esclude la dimensione religiosa?
Proviamo a tornare sull’argomento come parte di una discussione seria e importante. Il problema, a mio parere, non va affrontato secondo un’ottica di obbligo o divieto, ma va inquadrato nell’orizzonte socio-antropologico in cui collochiamo l’espressione religiosa nella scuola. Non è banale chiedersi che valore abbia fare il presepe, o festeggiare pubblicamente la Pasqua, la fine del Ramadan, la ricorrenza del Purim o il capodanno cinese. Si avverte oggi una sensibilità nuova nell’esprimere sé stessi e nel comunicare, per cui gesti e segni acquistano per chi li compie un’importanza assai rilevante. L’uso del tricolore nei cortei o sui palazzi pubblici, la bandiera della pace sul balcone, ma anche fare un gesto di saluto o scrivere su un pezzo di carta i propri desideri sono indice del «bisogno di esprimere le cose importanti con azioni fondate sui segni e la speranza che in queste azioni la realtà cambi» (F.-J.Nocke). Quali “cose importanti” e quali speranze di cambiamento, è necessario chiedersi, sono espresse dal presepe? Ne siamo consapevoli?
Va ricordato che la cultura, nel suo pieno significato antropologico, comprende in sé intrinsecamente anche l’aspetto religioso, come ci hanno insegnato i nostri padri greco-latini. Religione difatti è un “rispetto rigoroso” di ciò che è tramandato dall’antico (Cicerone), un legame tra un me e un tu, una relazione con le realtà meta-fisiche o nascoste, ma anche con quelle umane, terrestri (Lattanzio). Essa è dunque espressione di un rapporto con altre realtà, avvertito come esigenza personale e sociale. Vorrei ricordare qui la testimonianza resa dal presidente Sandro Pertini nel 1981 a un gruppo di giovani a Selva di Val Gardena. In quell’occasione dichiarava apertamente che, pur non avendo un’appartenenza religiosa, era fiero della sua fede politica e sociale, fatta di valori per i quali aveva lottato. Perciò li invitava ad avere una propria fede, di qualsiasi segno o espressione, religiosa o meno, su cui fondare l’esistenza e per cui spendere la vita. Una tale fede va espressa anche pubblicamente come propria identità e appartenenza, e va condivisa con i concittadini, pur senza imporla, nel modo più opportuno. Laicità non è laicismo, non significa assenza di espressione religiosa, né agnosticismo, o eliminazione dal contesto pubblico della propria identità, ma possibilità di esternare sé stessi, i propri punti di riferimento, ed è di conseguenza accoglimento, da parte della società, di ogni specificità.
Tale visione plurale è sostenuta dalla nostra Costituzione (Art.8), che attesta la libertà di organizzazione e manifestazione per le confessioni religiose diverse da quella cattolica. È un principio importante nella realtà multiculturale e multireligiosa italiana e di altri Paesi europei, in cui si è fatta oggi più rilevante la presenza di donne e uomini, provenienti da altre culture religiose, che vivono l’esigenza di esprimersi pienamente, sia pur in integrazione e sintonia «con l’ordinamento giuridico italiano» e «le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» (Art. 10). Questa libertà di manifestazione religiosa dovrebbe estendersi anche all’ambiente scolastico, lasciandone agli organi della scuola l’organizzazione, in una programmazione il più inclusiva possibile.
Quindi non limitiamoci a promuovere nella scuola la libertà per la parte cattolica di allestire il presepe e l’albero di Natale. Osserviamo come l’albero, pur presente fin dai primi secoli del cristianesimo, è stato valorizzato soprattutto dal Nord Europa, e particolarmente dalla tradizione protestante. Ciò non ci ha impedito negli ultimi due secoli di cooptarlo con spontaneità nella nostra cultura del Sud dell’Europa, più legata alla tradizione cattolica. Ciò permette la coesistenza – anche in molte nostre chiese – dell’albero natalizio, simbolo di Cristo Luce del mondo, e del presepe, espressione scenica della venuta di Cristo come Salvatore, proposta 9 secoli fa da Francesco d’Assisi e fatta propria da tutto il mondo cattolico. Due sensibilità religiose cristiane diverse si manifestano insieme a Natale, due segni, propri di diverse culture, possono essere affidati a ogni nuova generazione come veicoli di ‘cose importanti’ e di speranza.
Come i cristiani festeggiano le loro ricorrenze religiose, così anche gli altri scolari e studenti dovrebbero poter fare memoria e celebrare una festa della loro tradizione religiosa. Ciò permetterebbe di far conoscere ai propri compagni ciò che è “importante” nella loro cultura, e quali sono le loro speranze. Chi professa la fede ebraica potrebbe proporre una delle sue grandi feste, come la Pasqua, il Capodanno o il giorno dell’espiazione (Purim). Gli islamici potrebbero festeggiare il “Piccolo o Grande Bayram”, la “festa della fine del digiuno”, o quella della nascita di Maometto; gli induisti la festa “Makar Sankranti” o “Pongal”, i buddisti la festa della nascita o dell’illuminazione di Budda, i cinesi il loro Capodanno; per gli africani sarebbe interessante trovare una forma per festeggiare l’“Essere Supremo” o gli antenati defunti. Certamente le modalità vanno studiate e preparate, in una programmazione a lungo termine, accurata e partecipata. Niente sarebbe più dannoso che un affastellarsi di feste, in cui il folklore prevalesse sulla trasmissione di significati.
Si potrebbe così contribuire in modo rilevante alla formazione umana e “culturale” degli studenti. I ragazzi sperimenterebbero la libertà di manifestazione della sensibilità e identità religiosa apprese nelle famiglie d’origine; e diverrebbe possibile conoscere in modo esperienziale la cultura altrui e il valore della diversità, che non è annullamento delle singole identità culturali e religiose, quanto educazione al rispetto, arricchimento reciproco e soprattutto ampliamento di orizzonti culturali: tutti compiti specifici della scuola.
Per i cristiani protestanti e cattolici, infine, sarebbe una messa in atto di quel dialogo interreligioso a cui essi fortemente si rifanno; mentre per i cattolici in particolare sarebbe un esercizio di fedeltà all’insegnamento del Concilio Vaticano II (cfr. Nostra Aetate) e alle indicazioni spirituali e pastorali di papa Francesco (cfr. Fratelli tutti, n. 271).