Grazia Deledda - Alamy
Si parla con insistenza, da alcuni anni a questa parte, della necessità di valorizzare la presenza femminile nel canone letterario. La questione riveste notevole importanza sul piano critico, storico e didattico. In realtà non serve “inventare” nulla: basterebbe “vedere” le scrittrici là dove esse sono. Il problema è che molto spesso si tende a non vederle. Questo è anche il caso di Grazia Deledda (1871-1936). È stata l’unica donna italiana a ottenere (nel 1926) il Nobel per la letteratura, eppure lo spazio che le riservano i manuali scolastici è quasi sempre minimo. Ora due recenti pubblicazioni giungono a sottolineare il posto che questa autrice merita nella storia della letteratura del Novecento.
La prima è una bella, partecipata monografia a firma di Laura Vallieri, Grazia Deledda. Cuore indomabile (Ares, pagine 232, euro 16,00), che ne ripercorre la vita e le opere, soffermandosi in particolare su alcune di esse, ritenute particolarmente emblematiche (da Cenere a Elisa Portolu, da L’edera a La madre).
Negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, l’arcaica quiete domestica della vita nuorese di Grazia, quinta di sette figli, è dominata dalla figura del padre Antonio, verso il quale la figlia nutriva un grande trasporto. Dalle pagine del romanzo autobiografico Cosima, apprendiamo anche che la sua giovinezza fu segnata da una ininterrotta catena di sciagure e lutti familiari.
In virtù di questa non facile situazione personale e del clima di generale arretratezza della società isolana del tempo, si comprende facilmente l’anelito alla fuga coltivato sin da ragazza dalla futura scrittrice. Tale desiderio si realizzerà nel 1900 attraverso il matrimonio (con un impiegato di Roma, che Grazia raggiunge nella capitale), ma probabilmente tale scelta non fu vissuta in maniera psicologicamente pacificata: una causa possibile del senso di colpa che aleggia un po’ ovunque nei romanzi deleddiani può essere individuata proprio in questo “peccato di sradicamento”. L’abbandono dell’isola-terra-madre sembra essere stato vissuto dall’autrice come colpa originale, come tradimento degli affetti nativi. S’innesca così la necessità dell’espiazione di una supposta indegnità: penitenza da condurre, magari, attraverso la stessa letteratura.
Anche a Roma, infatti, Deledda conduce una vita austera, lontana dalla mondanità salottiera, chiusa nel ristretto cerchio di famiglia e lavoro. Scrive moltissimo e pubblica romanzi e racconti con una cadenza quasi annuale, in un’esistenza appartata, come se la sua vita di donna non meritasse più di avere uno spazio proprio. Consegnatasi a un uomo, a un marito, costituito il nucleo familiare, la donna che era stata sino a quel momento cede il posto alla sposa, alla madre, alla scrittrice, la quale si proietta con tutto il potere della fantasia nel passato, abbandonato con la partenza dalla Sardegna e con il matrimonio. «A Grazia», spiega Laura Vallieri, «non sfugge che scrivere sia per le donne un sacrificio doppio o forse triplo, rispetto a quello di un uomo. Dedicare il proprio tempo alla letteratura costringeva quasi sempre a escludersi dal mondo in cui le altre donne si muovevano, eppure affronterà senza rimpianti questo sacrificio».
Il capolavoro di Grazia Deledda viene unanimemente indicato nel romanzo Canne al vento, del quale Feltrinelli manda in libreria una nuova edizione a cura di Mauro Novelli (pagine 240, euro 10,00). Ester, Ruth e Noemi Pintor sono sorelle, discendenti di un nobile casato, ormai economicamente decaduto, in un paese di nome Galte. Le tre donne vivono quasi da recluse nell’antica casa in rovina, assistite dall’anziano servo Efix, che coltiva l’ultimo podere rimasto loro degli immensi possedimenti di un tempo. Con la sua devozione alle “padrone” Efix intende espiare la colpa di aver ucciso molti anni prima, seppure involontariamente, il padre delle donne, don Zame: il servo aveva infatti cercato di agevolare la fuga di una quarta sorella, la più giovane, Lia, dalla tirannia del padre, che teneva le figlie segregate in casa affinché non si mischiassero con la gente del paese.
Un giorno, d’improvviso, giunge dal continente Giacinto, il figlio di Lia, rimasto orfano e licenziato per un furto dal suo impiego alle dogane. Il ragazzo - che Efix inizialmente sperava potesse essere di sostegno alle zie - si rivela invece debole, scioperato e spendaccione, al punto da sperperare un’ingente somma di denaro prestatagli da un’usuraia. L’irruzione di Giacinto innesca tutta una serie di eventi che condurrà le tre sorelle sull’orlo della rovina.
Canne al vento è un concentrato dei temi della poetica deleddiana. C’è la Sardegna arcaica, anche se l’interesse per il folclore e il regionalismo sembra l’espressione, più che di un approccio verista, di un’attitudine romantica e decadente, che mira a una rappresentazione lirica di ambienti, paesaggi e personaggi, raffigurati come parte di un mondo primitivo e favoloso. C’è il motivo del destino associato a quello della colpa: nella visione religiosa della scrittrice, il destino finisce con il confondersi con la volontà di Dio. Qui èEfix è il personaggio che rappresenta più compiutamente tale visione del mondo, nella quale la concezione pagana (del destino) e quella cristiana (della Provvidenza) si intrecciano e si confondono su un piano di sostanziale sincretismo: «Non voleva, a sua volta, forzare la sorte, e pensava ch’era peccato cercare di opporsi ai voleri della Provvidenza. Bisogna abbandonarsi a lei, come il seme al vento. Dio sa quel che fa». C’è la visione dell’amore come colpa: il peccato dell’eros fatalmente abbatte sugli uomini una pesante sequenza di castighi. L’amore è una forza prorompente e prepotente, il portato di una fatalità a cui non ci si può opporre, ma la pulsione erotica è sempre pericolosa, perché sovverte l’ordine morale e sociale.
È perciò senz’altro da sottoscrivere il giudizio vergato da Mauro Novelli nella sua intelligente postazione: «Canne al vento è un libro sardo, ostinatamente sardo, integralmente sardo, sebbene di respiro universale».