domenica 15 dicembre 2024
Nel cuore alauita di Damasco oltre 300mila del milione di abitanti sono fuggiti alla caduta del regime da cui erano considerati privilegiati Ma la gran parte è povera
Si distruggono le effigi del dittatore Assad

Si distruggono le effigi del dittatore Assad - ANSA

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«Ma quale protettore degli alauiti... Bashar al-Assad s’è n’è andato e ci ha abbandonati. Ci aveva promesso di stare al nostro fianco fino alla fine. E invece... Per quasi 54 anni abbiamo vissuto un’illusione. Ci ha sempre mentito». Più che arrabbiato, Abu Saleh è deluso. Dice di sentirsi tradito dal “suo” presidente, fuggito precipitosamente da Damasco in Russia, esattamente una settimana fa. «Non era il presidente mio o degli alauiti. Era l’uomo che comandava l’intera Siria. Lo rispettavamo per questo. E perché non avevamo altra scelta».

Nell’ultimo mezzo secolo, la comunità – una delle varianti dell’islam sciita – è stata considerata l’architrave politica e militare del clan Assad. Dopo secoli di oppressione da parte dell’impero ottomano, la conquista del potere, nel 1970, dell’alauita Hafez Assad, padre di Bashar, sembrava l’occasione di riscatto per la minoranza, poco più di due milioni di persone in una nazione di 23 milioni, per il 70 per cento sunniti.

In effetti, i suoi esponenti sono stati impiegati in massa nelle forze di sicurezza e nella feroce milizia Shabbiha, incaricata del “lavoro sporco”. Un’altra parte è stata reclutata negli uffici statali. Solo una ristretta élite – alleata con gli imprenditori sunniti –, però, si è aggiudicata effettivi privilegi. È sufficiente uno sguardo fugace a al-Mazzeh, la loro roccaforte, per rendersene conto. Nel sobborgo-propaggine della capitale, spezzato in due dall’omonima autostrada, su un milione di abitanti, il 90 per cento è alauita. Appena una manciata di questi vive negli appartamenti esclusivi di Vilas, la porzione compresa tra l’autostrada e Damasco. Il resto è povero.

«Sono stato per 35 anni nell’esercito prima di ritirarmi nel 2012. Sa quanto mi danno di pensione? L’equivalente di venti dollari al mese. Sono sufficienti? Me lo dica lei: ce ne vogliono duecento solo per mangiare», sospira Abu Saleh che guida il consiglio di zona di al-Mazzeh 86, un labirinto di casupole aggrappate in verticale l’una sull’altra e affacciate su stradine strette, dall’asfalto mal ridotto. Alle buche si aggiungono i rifiuti accumulati da giorni: la raccolta è ripresa ieri e non sembra a buon punto. Sotto le montagne di spazzatura si trova ancora qualche fucile che i soldati hanno gettato alla rinfusa domenica scorsa, insieme alle divise.

La gran parte è stata raccolta dai gruppi di autodifesa che hanno rimpiazzato i militari al check-point all’entrata. Nelle 24 ore di caos tra la fuga del dittatore e l’entrata delle truppe di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), la principale della galassia di formazioni ribelli, ci sono stati saccheggi e rapine. «Così abbiamo imbracciato le armi per mantenere l’ordine», racconta uno dei vigilanti. Presto, però, dovranno consegnarle al ministero della Difesa. Ieri il leader di Hts, Ahmed al-Sharaa, meglio noto con il nome di battaglia Abu Mohammed al-Jolani, ha annunciato lo scioglimento delle bande armate. Nei giorni scorsi, i miliziani sono venuti più volte a al-Mazzeh per garantire agli abitanti che saranno protetti. I timori sono tanti. Un terzo della popolazione – tra 300 e 350mila persone – sono partite in fretta e furia allacaduta del regime di cui erano considerati sostenitori, terrorizzati da possibili vendette. Pian piano qualcuno rientra. La maggior parte, però, è ancora rintanata nella “Siria alauita”, tra Latakia e Tartus.

Tra questi la famiglia di Kinda Deeb, 40 anni. «Sono andati tutti là: mia madre, mio fratello, mia sorella, la suocera. Io non ho fatto in tempo ma forse è stato meglio così. Alla fine non ci hanno tagliato la gola come ripeteva in continuazione la propaganda di Assad. I miei parenti vorrebbero tornare ma la benzina è troppo cara», dice Kinda, commossa. «Mi mancano, ho paura che non li vedrò per tanto tempo». La donna, disoccupata, sostiene di non avere paura dei nuovi governanti di matrice jihadista. «Se ordinano di indossare il velo lo farò, non è il mio principale problema. Come vedova di un militare prendo un sussidio di 3,5 dollari. Non ci compro nemmeno le sigarette…». Rasha Abdallah Shaheh, invece, è spaventata e lo dice in tono concitato, parlando come un fiume in piena. «Non rimpiango Assad ma non voglio perdere i miei diritti. Sono venuti in ufficio a garantirci che non accadrà. Non so, però, se manterranno la promessa».

Non è facile decifrare le intenzioni del governo entrante. Finora Jolani e il neo-premier, Mohammad al-Bashir, hanno fatto un’intensa campagna di «rassicurazione» a tutti i livelli e ha promesso che «in Siria ci saranno elezioni».

Mentre i miliziani fanno i selfie con la gente, Hts ha aperto canali di dialogo con gli Usa – per cui rientra nella lista delle organizzazioni terroristiche – e con i vecchi nemici, Iran e Mosca. Con quest’ultima, in particolare, si discute il futuro della base aerea Hmeimim e del porto di Tartus, entrambi sotto il controllo russo. Postazione che il Cremlino, come ribadito ieri, «non ha intenzione di perdere». Jolani, infine, ha teso la mano anche a Israele con cui ha detto di non volere un conflitto. «Siamo stanchi di oppressione. Il nuovo governo deve rappresentare tutti i siriani – conclude Rasha -. Sono decisa a partecipare alla ricostruzione. Non me ne andrò. Perché credo in Dio».

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