Il sociologo Pierpaolo Donati - archivio
Anticipiamo stralci del primo capitolo del nuovo libro del sociologo e filosofo Pierpaolo Donati, Una cultura che trasforma il mondo. La vita come relazione (Ares, pagine 216, euro 18,00), stimolato dal dibattito pubblicato da “Avvenire” su “Agorà” nel corso del 2024 sul tema cattolici e cultura.
Esiste una cultura cristiana? Forse sì, forse no. Bisogna identificarla, darle un’identità. Per darle identità bisogna avere dei criteri di distinzione. Ma questi criteri stanno diventando opachi e, anzi, sfumano sempre di più, perché fare distinzioni nel clima culturale attuale significa fare delle discriminazioni. Nel caso della cultura cristiana, se la distinguiamo, veniamo accusati di discriminare le altre culture, di fare delle violenze ingiustificate alle altre religioni, a chi non crede, a tutti quelli che non condividono la fede cristiana. In questo clima, la cultura cristiana batte in ritirata e fa fatica a trovare una legittimazione, se non trasformandosi in pratiche di carità, di assistenza sociale e di ricordi di una cultura che fu. Diventa sempre più difficile dire se esista una cultura cristiana e in che cosa consista. I fedeli cristiani diranno che esiste, ed è la cultura di chi crede in Cristo. Ma la fede, di per sé, non fa una cultura, specie quando la fede diventa un’opzione soggettiva, come nei tempi attuali. Quanti testi parlano della cultura cristiana commentando il Vangelo, ripetendo i passi della teologia cristiana e del catechismo, rielaborando le encicliche e il magistero della Chiesa. Ma serve a poco, perché la fede richiede una cultura che la incarni. Per questo motivo, non senza ragioni, i non credenti e credenti di altre religioni accusano certi cristiani di essere fideisti e volontaristi, di avere solo fantasie, di costruirsi miti. Alla fine, considerano la cosiddetta cultura cristiana solo come una sopravvivenza del passato. La cultura cristiana viene relegata alle epoche in cui le popolazioni erano soggette alle superstizioni e ai miti, quando erano nell’infanzia dell’umanità, che ora diventa matura e perciò elabora l’identità del cristiano a proprio modo.
Difficile dire qualcosa di nuovo su questo dibattito. Da dove partire? Propongo di partire dall’idea che la cultura è nelle relazioni sociali, è fatta di relazioni sociali, si nutre di relazioni umane. Significa avere relazioni produttive di senso significante nella vita quotidiana. La scommessa è delineare una cultura di questo tipo che può trasformare il mondo, non quella scritta nelle biblioteche (la cultura secondo Karl Popper) o affidata ai social network. Quali argomentazioni portare per sostenere questa tesi? Partirò dal fatto empirico che le relazioni nascono dal cuore. È il cuore che ascolta, mentre la mente, il più delle volte, volge da un’altra parte. Il cuore, per gli esseri umani, non è solo un organo funzionale essenziale, ma è simbolo di una realtà che sperimentiamo ogni giorno: il desiderio di una relazione di amore, che percepiamo come sentimento interiore, ma, in quanto desiderio, si rivolge a un Altro, implica il coinvolgimento di un’altra o più persone.
Questo desiderio ha bisogno della mente, per comprendere l’oggetto di amore, se sia appropriato o meno, se lo si insegue razionalmente oppure no. È la mente che elabora i sentimenti e il modo di gestire le relazioni. Lo può fare in molti modi, che chiamiamo modi di riflessività. La riflessività matura passa attraverso tre momenti: il discernimento delle alternative, la scelta di una di esse e poi la dedizione nel per- seguirla. Ma ci sono molti ostacoli in ciascun momento, e lì nascono i problemi di una riflessività insufficiente o distorta, che rende fragili le relazioni sociali. La relazione è matura quando sa tradurre emozioni e sentimenti in un atteggiamento positivo verso l’Altro, che implica empatia interiore, ma anche valutazione della relazione in sé stessa, se sia più o meno buona. È nella relazione cuore-mente che si annida il problema, perché cuore e mente tendono ad andare per proprio conto. Dobbiamo ammettere che, spesso, siamo spinti più dalle emozioni e dai sentimenti che dal considerare in modo razionale il bene oggettivo delle relazioni con gli altri.
Per vedere il bene o il male inerente alle relazioni, al di là degli interessi individuali, nostri e degli altri, occorre coltivare una certa sensibilità verso le relazioni, comprendere le loro qualità e che cosa possono causare. Se non sappiamo vedere le relazioni con gli altri, e non in modo appropriato, il cuore inaridisce o va a spasso, e la mente diventa atoreferenziale. Di conseguenza si produce una cultura, un modo di vita, distorta. Per questo dobbiamo dire: «Dammi, Signore, un cuore che ascolta» (1 Re 3, 9). Un cuore che ascolta è un cuore relazionale. Cosa non facile da comprendere. Infatti, molti intendono che sia relazionale perché la persona si protende fuori di sé, con un impulso interno di generosità. Ma ciò non basta. Ascoltare implica che tutta la persona presti attenzione a ciò che viene dal di fuori, guardando alla relazione che l’Altro agisce verso di me e riflettendo sulla bontà o meno della relazione come tale, a prescindere da che cosa l’Io voglia fare. Implica mettersi nei panni dell’Altro, ma non solo nella nostra mente, bensì rendendo empatica la relazione come tale. Il che presuppone una trasformazione del nostro Io. Per ascoltare bisogna farsi piccoli, umili, bambini nell’anima, nella mente e nel cuore. Farsi piccoli è un atto del soggetto, ma il soggetto lo può fare solo in una certa relazione, se sa valutare la relazione con gli altri e renderla così, comprensiva, empatica, inclusiva. È questa relazione che produce una cultura.
Ma il punto è, lo ripeto sempre, che non capiamo cosa sia una relazione. Gesù lo ha detto, ma il nostro Io fatica a comprenderlo, perché è centrato in sé stesso, mentre Gesù ha detto che si rende presente non in un Io autoreferenziale, ma nella relazione con gli altri, («dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro», Mt 18,19-20, dunque egli sta fra due o più persone). Ciò vale anche quando preghiamo per conto nostro, perché la preghiera implica sempre il riferimento e il legame con altri significativi.