martedì 26 dicembre 2023
I mari sono stati riconosciuti bene comune globale e la “scienza del mare” si sta rapidamente affermando nell’ambito della diplomazia scientifica
Per salvare gli oceani il 2024 sarà l'anno decisivo

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«Il 2024 rappresenterà la pietra miliare per il Decennio degli Oceani (2021-2031) indetto dalle Nazioni Unite»: con queste parole, Vladimir Ryabinin, segretario esecutivo della Conferenza oceanografica intergovernativa (Cio-Unesco), sotto la cui egida si terrà a Barcellona, dal 12 al 14 aprile prossimi, la Conferenza sulle Scienze oceaniche, ha inteso sottolineare la necessità di cogliere tale appuntamento - che riunirà la comunità globale di tutti gli operatori del mare, a livello istituzionale, scientifico, imprenditoriale e del terzo settore - come una opportunità irripetibile per riflettere collettivamente sui progressi del primo triennio e fissare le priorità comuni per gli anni che porteranno alla scadenza del decennio.

La cornice, tuttavia, in cui si inserisce il necessario bilancio sul ruolo della scienza e dell’innovazione nelle conoscenze per la gestione sostenibile degli oceani e la condivisione delle strategie per la “sfida blu” - dall’innalzamento delle temperature marine alla sicurezza alimentare, dalla perdita della biodiversità alla blu economy, dall’inquinamento acustico e da plastiche alle specifiche problematiche delle comunità costiere locali, passando per la minacciosa invasione di specie non indigene - riguarda proprio la natura di questa sfida «immensa, tale per cui nessun paese o settore può vincerla da solo e che non può lasciare indietro nessuno» secondo lo stesso Ryabinin.​

Una maratona di tre giorni, dunque, in cui dovrà prevalere una visione che sappia guardare oltre gli interessi nazionali e partigiani, per assumere la stessa prospettiva, transfrontaliera, del mare, secondo un principio ben espresso da un’altra “maratona”, la Worldwide Coastal Communities Digital Marathon, il più partecipato evento a livello planetario, con 52 Paesi collegati, dedicato al “blu”, che, in occasione della Giornata mondiale della pesca, ha coinvolto 17 comunità costiere distribuite in 16 paesi di tutti i 5 continenti, con rappresentanze di pescatori, esperti, decisori politici e attivisti impegnati per lo sviluppo sostenibile di un ambito su cui poggiano le economie e la sussistenza di milioni di persone nel mondo.

E, così, Tricase Porto, località del leccese da cui Ciheam Bari, organizzazione intergovernativa per gli alti studi agronomici del Mediterraneo, ha lanciato la prima edizione della maratona delle donne e degli uomini di mare dei 5 continenti, chiude il 2023 passando idealmente il testimone a Barcellona, dove proseguirà il confronto sulle buone pratiche, dove continuerà la condivisione di ricerche e progetti, come lo scambio di dati e metodologie, dove si testeranno insieme nuove tecniche in sperimentazione.

«Abbiamo voluto chiamare a raccolta le comunità costiere di ogni angolo del mondo, convinti che esse siano la linfa vitale per la tutela di uno straordinario ecosistema culturale e ambientale: sono presidi per la sicurezza alimentare e custodi di un patrimonio di tradizioni e culture da salvaguardare, in quanto espressione di una costellazione infinita di comunità locali, che hanno mostrato di saper colmare le reciproche distanze. Ora, il dialogo è stato avviato e il resto verrà, navigando sulla stessa rotta», spiega Biagio Di Terlizzi, vicedirettore Ciheam e responsabile dell’ufficio Cooperazione internazionale, soffermandosi sulla scelta di «dare la parola - dal Kenya alla Nuova Zelanda, dalla Tunisia al Canada - a chi opera, soprattutto in aree di particolare fragilità, in un ambiente in continua trasformazione e che, quindi, richiede capacità di adattamento da parte delle popolazioni di quelle regioni».

Uno straordinario di esempio di diplomazia blu, che si manifesta in sguardi, voci, storie ed esperienze tra persone provenienti da mondi che più lontani non potrebbero apparire, ma accomunati dal desiderio di una esistenza in pace e sicurezza. Se è vero, infatti, che la pesca per secoli ha garantito sicurezza e benessere per milioni di famiglie, alimentando commercio e comunicazioni, creando lavoro e occupazione, portando integrazione e saperi, nelle regione di mare e non solo, è altrettanto vero che oggi gli ecosistemi marini e i litorali di tutti gli oceani sono sotto scacco dello sfruttamento eccessivo dei mari e del degrado ambientale, che non mette a rischio solo la sostenibilità delle risorse alieutiche, ma anche la biodiversità e, con essa, l’intero tessuto sociale ed economico collettivo.

«Benché numerose in termini di specie, le risorse ittiche oggigiorno sono preda di altre specie - prosegue Di Terlizzi - comparse come “effetto collaterale” del cambiamento climatico e in conseguenza di una “globalizzazione” dei trasporti che ha trasferito alcune di esse (basti pensare al caso del granchio blu) in ambienti nuovi, dove si sono adattate a scapito di quelle autoctone». Diffondere una cultura volta alla gestione responsabile delle risorse ittiche significa cambiare radicalmente le condizioni di vita di intere categorie di lavoratori e delle loro famiglie. Del resto, che le acque fossero “donatrici di vita e portatrici di morte” era cosa nota già in antichità dalle popolazioni, a cominciare da quelle che abitavano le sponde del Mediterraneo.

Anche per queste ragioni, i mari sono stati riconosciuti bene comune globale e la “scienza del mare” si sta rapidamente affermando nell’ambito della diplomazia scientifica, dove si è ritagliata, in modo quasi del tutto “naturale”, un ruolo strategico. Infatti, a cominciare dalla banale osservazione dall’alto della superficie terrestre, per lo più occupata da acqua, emerge, anche visivamente, l’impossibilità per l’immenso manto blu a limitarsi entro definiti tracciati, l’avversione ai concetti stessi di confinamento e confine, invenzione, del resto, del genere umano.

L’inclinazione di mari e oceani a definirsi come un continuum, senza vincolo alcuno, deriva dal loro stesso essere fisicamente transfrontalieri, risorse comuni, in condivisione, oltre qualsivoglia barriera arbitrariamente eretta.

Ecco, dunque, che la diplomazia dell’acqua può più facilmente conquistare la fiducia nei negoziati internazionali per la costruzione di uno scenario multilaterale dialogante e pacifico. Collaborare a programmi di ricerca su mari e oceani, finalizzati a generare valore e benefici per tutta la popolazione del pianeta, non significa solo coagulare gli sforzi di miliardi di persone attorno allo stesso obiettivo, in nome di una sfida superiore con al centro il futuro dell’umanità, superando dirimenti contrapposizioni conflittuali, ma inaugurare un nuovo corso nelle relazioni diplomatiche, in cui le politiche e i trattati per la gestione delle acque e degli oceani, il commercio, lo sviluppo economico e l’inclusione sociale siano orientate all’individuazione delle migliori soluzioni.

In questa direzione, lo scorso marzo è giunto un segnale incoraggiante dalla Conferenza delle Nazioni Unite sull’acqua (la prima, incredibilmente, nonostante da decenni le risorse idriche siano al centro di dibattiti globali e conflitti non sbrigativamente relegabili a contese territoriali) con l’adozione consensuale del primo trattato in assoluto per la protezione della biodiversità in alto mare: un passaggio fondamentale a livello globale, ma che ha visto l’Europa guidare (e finanziare) il processo che ha condotto all’accordo sul trattato - giuridicamente vincolante - per la protezione della biodiversità nelle acque al di fuori dei confini nazionali (in alto mare, appunto): una superficie blu pari quasi alla metà dell’intera superficie del pianeta.

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