martedì 19 aprile 2016
Puccini, “Trittico” degli ultimi
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Quella di Damiano Michieletto per il Trittico di Giacomo Puccini è una regia “bergogliana”. Perché racconta gli ultimi delle periferie del mondo, gente che chiede “un segno di grazia”. Lo pensi mentre scorre la musica e sul palco vedi un’umanità per la quale «la giornata è già buia la mattina» che vaga mezza ubriaca tra i container di un porto. Vedi donne impegnate a lavare panni in un lavatoio illuminato da freddi neon, donne con la mente altrove, per le quali l’unica cosa possibile da fare è “espiare” colpe inesistenti. Una regia “bergogliana” perché racconta, con una certa ruvidità che è quella della vita, storie di emarginati. Ma lo fa con una tenerezza sconfinata. Racconta di periferie fisiche e di periferie dell’anima, luoghi bui dove «è difficile esser felici». Ma li illumina con un sorriso buono che ti ricorda quello di un padre e di una madre. Una regia ideale (anche se nata per Vienna nel 2012 quando Jorge Mario Bergoglio non era ancora il Francesco che tutto il mondo oggi conosce) per il Giubileo straordinario voluto dal Papa. Il Teatro dell’Opera di Roma, in pieno Anno della Misericordia, manda in scena sino a domenica prossima un’edizione di forte impatto del Trittico di Puccini. Che lascia il segno e che non lascia indifferenti, come dovrebbero fare le povertà del nostro mondo. Problematica perché mette sul piatto alcuni nodi che oggi interrogano la nostra società. Cosa che poi dovrebbe essere sempre il compito del teatro, farci riflettere sul nostro presente. Michieletto scava a fondo e trova chiavi di lettura inaspettate che rendono attuali le vicende di uomini e donne di ieri messe in musica da Puccini nel Trittico – che sono poi tre opere in una: Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi.  Lo restituisce dal podio dell’orchestra del Teatro dell’Opera, in una lucida lettura aderente al disegno registico, Daniele Rustioni: un Puc- cini mai sdolcinato, a tratti ruvido e a tratti crudele, ma anche illuminato di umana comprensione. Tre vicende che solitamente i registi raccontano come variazioni sul tema della morte. Ma che Michieletto fa diventare un unico discorso sulla maternità. Maternità soffocata, quella del figlio morto di Michele e Giorgetta. Maternità negata e tradita, quella di Suor Angelica. Ma anche maternità che sa regalare lo stupore della vita. Un intreccio di storie che si richiamano, che sconfinano l’una nell’altra grazie anche ai container delle scene di Paolo Fantin e ai costumi di Carla Te- ti che raccontano un oggi fuori asse. Sale il sipario nero e tra i cassoni di metallo del porto dove è ambientato Il tabarro, Michele gioca con un trenino. Quello del figlio morto (morto?) qualche mese prima. In tasca sempre le sue scarpine. Che torneranno alla fine delle tre ore di musica. Gianni Schicchi, giocata la burla del testamento ai parenti di Buoso, diventa Michele. Per questo Michieletto vuole che l’interprete sia lo stesso, qui un intenso Roberto Frontali, travagliato Michele, autorevole e mai clownesco Schicchi. La casa implode, si chiude su se stessa: riecco i container dell’inizio. Gianni/ Michele si mette il giubbottone da lavoro dello scaricatore e da una tasca estrae le scarpine, saranno il dono per il bimbo di Lauretta e Rinuccio. Un cerchio che si chiude e riporta all’inizio uno spettacolo dove i rimandi e i link da un quadro all’altro sono continui. Ma soprattutto un segno potente di speranza dopo tanta sofferenza. Quella di Giorgetta che lancia il suo urlo di fronte al cadavere dell’amante Luigi ucciso dal marito Michele. La musica si spegne. L’urlo no. Risuona nel buio. Che subito è rischiarato della luce fredda dei neon. Giorgetta è impazzita. Immobile, al centro della scena, è catapultata in una sorta di ospedale psichiatrico. Un’infermiera le taglia i capelli. E Giorgetta diventa Suor Angelica. Immagine potente perché capisci subito che non siamo in un convento, ma in un luogo di detenzione. Michieletto cita esplicitamente il film Magdalene di Peter Mullan, discussa pellicola che ha denunciato soprusi su ragazze ritenute immorali. La rilettura funziona in ogni dettaglio, tra direttrici in tailleur nero e infermiere in divisa ospedaliera. È l’atto che inquieta di più. Un pugno nello stomaco, grazie anche alla prova intensa di una straordinaria Patricia Racette, che, dopo essere stata un’appassionata Giorgetta, incarna la lucida follia di Suor Angelica. Lei che prende i vestiti del figlio, li mette in grembo e ripensa alla sua maternità è un’immagine scioccante e tenera allo stesso tempo. È l’atto più crudele, perché per Michieletto il bambino che Angelica ha partorito prima di essere costretta ad entrare in convento non è morto come dice, mentendo, la zia Principessa (una glaciale e cupa Violeta Urmana), ma è lì fuori dalla porta della cella della madre che vedrà per la prima volta solo da morta. Crudeltà che, venata da un sorriso beffardo, torna nello Schicchi. Parenti serpenti, borghesi arricchiti (la Zita di Natascha Petrinsky e la Ciesca di Anna Malavasi) quelli che Michieletto mette in scena calcando la mano sull’aspetto pop. Che scompare, per lasciare spazio alla poesia, quando Lauretta e Rinuccio (Ekaterina Sadovnikova e Antonio Poli) si scoprono genitori. Un abbraccio, il loro, che accoglie il dolore di Michele e Giorgetta e quello di Suor Angelica trasformandolo in dono d’amore.
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