giovedì 2 gennaio 2025
A partire da un saggio di Adriano Prosperi un’indagine, tra Americhe e Asia, sull’attività di conversione dei popoli “selvaggi”
Il battesimo degli Anti in Amazzonia in un’incisione del 1864

Il battesimo degli Anti in Amazzonia in un’incisione del 1864 - Alamy Stock Photo

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«Tutte le nozioni, in cui si condensa semioticamente un intero processo, si sottraggono alla definizione; definibile è soltanto ciò che non ha storia». Non ci aspetteremmo una citazione di Friedrich Nietzsche apposta all’inizio, quasi in esergo, di un libro di Adriano Prosperi. Una citazione messa in campo da uno dei nostri massimi storici che conferma fino a che punto un vero cultore di storia diffidi delle definizioni e, al tempo stesso, quanto profondamente senta il bisogno di sfidare la sua natura e il suo mestiere cimentandosi in qualunque di esse. E il pensiero corre a una bellissima raccolta di saggi da lui dedicata a Inquisizioni (Quodlibet, 2023), uno dei temi più presenti nella ricerca prosperiana. L’inquisitore formula definizioni - è la sua funzione, la base del suo potere - ma non sempre lo scopo ultimo della sua ricerca e meno ancora forse il suo desiderio. Comunque, l’inquisitore rende la sua specifica expertise in uno spirito meno libero possibile da considerazioni storiche: anche perché sa che uno degli elementi di base dell’evento storico è la dinamicità, per sua natura prossima alla staticità di qualunque definizione. È significativo che il libro di Prosperi Missionari. Dalle Indie remote alle Indie interne (Laterza, pagine 208, euro 20,00) sia uscito l’anno successivo rispetto a Inquisizioni, una splendida raccolta di una trentina di saggi redatti in un lungo tempo, ma a cavallo comunque di quel fatale 1998 durante il quale l’allora prefetto della Congregazione vaticana della Dottrina della fede, cardinale Joseph Ratzinger, decise l’apertura agli studiosi dei documenti delle Congregazioni del Sant’Uffizio e dell’Indice. L’Inquisizione indagava sui rapporti tra “fuori” e “dentro”, tra verità che esce dalla bocca e verità custodita nel cuore. E proprio all’incrocio di quelle due verità si situava da secoli – ben lo ha dimostrato Benjamin Z. Kedar – il rapporto fra la crociata, che (per quanto ciò fosse formalmente proibito da qualunque canone) finiva sovente con l’essere la fonte di molte conversioni d’infedeli al cristianesimo, e la missione che per sua natura doveva recare alla Chiesa frutti di conversione spontanea e magari addirittura gioiosa. Se missione e crociata hanno scopi analoghi nella diffusione della fede, esse divergono profondamente quanto ai metodi e agli scopi. E il campo tra le due dimensioni, la crociata e la missione, si apriva su una continua presenza di correlazioni e su un’infinita possibilità di scontri. Specie poi da quando il potere di gestire la missio, costantemente nelle mani del pontefice, venne da lui delegato non solo ad altri membri del clero, ma anche ai capi degli Stati europei per i quali era fin troppo facile interpretare la missione come uno strumento di dominio coloniale. Ma quanto poteva essere obiettivamente tragica, per la coscienza missionaria, la consapevolezza che il “barbaro”, il “selvaggio”, liberandosi con la conversione dalle catene spirituali dei suoi falsi dèi, sentiva nel contempo pesargli di più attorno a polsi e alle caviglie (il che non è poi nemmeno un modo di dire) il peso di una fede che lo rendeva “fratello” di quanti questi e quelle gli avevano imposto? E quante volte il missionario dovette sentirsi intimamente vicino più allo schiavo – convertito o meno – che non al padrone del quale egli condivideva la fede? E quante altre volte dovette rendersi conto dell’inanità e dell’ipocrisia della fede dei padroni battezzati, magari a fronte della purezza e della mitezza di quanti la Chiesa imponeva di considerare ancora “schiavi del demonio” o esposti al pericolo delle sue lusinghe espresse attraverso il permanere di “superstizioni” e di tradizioni? Ben presto, comunque, tanto nelle Americhe quanto nelle “Indie” (interne o remote, vale a dire asiatiche o americane, per non parlare delle Indie delle contrade più arcaiche della stessa Europa, per esempio in certe aree dell’Italia meridionale) e delle lontane terre che molti descrivevano senza esserci mai stati, fidando su testimonianze altrui: i libri di un Daniello Bartoli o di un Ludovico Antonio Muratori ne sono la prova. E se talora i missionari tra Indie occidentali e orientali potevano riscontrare stupefacenti affinità con luoghi ch’erano loro più familiari, a volte il “lontano”, l’“estraneo”, magari il mirabile o il diabolico si riscontravano con stupore a poche leghe da casa, magari sulla Sila o nell’isola di Capraia. Allo stesso modo, talora le resistenza all’accoglienza della fede nascevano dalla difficoltà ad accogliere idee che in un certo modo parevano familiari ma che cozzavano con strutture etiche profonde, mentre una troppo facile disponibilità alla nuova fede poteva nascere, al contrario, da completa incapacità d’intendere la sostanza intima di un messaggio espresso in parole semplici. In questo contesto, la capacità di mediazione dei gesuiti poteva apparire come astuta ambiguità impossibile ad esser davvero compreso data la lontananza antropologica che divideva chi insegnava da chi ascoltava: e l’universalità obiettivamente portata avanti ad esempio dai gesuiti nelle esperienze del cristianesimo “cinese” o dei riti “malabarici” poteva ad esempio apparire disinvolto sincretismo. Viene davvero da rimpiangere il fatto che troppi alti prelati, chiamati a giudicare i missionari, non avessero mai compreso (e magari nemmeno mai letto) quel che aveva a suo tempo scritto il cardinal Nicola Cusano.

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