sabato 4 gennaio 2025
Paolo Borruso traccia la storia dei nostri rapporti con l’Africa dal 1945 al 1989 vedendo il continente come protagonista e non solo “espressione geografica”. Il ruolo dei missionari
La stazione di Addis Abeba, in Etiopia

La stazione di Addis Abeba, in Etiopia - Alamy Stock Photo

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C’è un importante articolo di Simone Weil dal titolo “La questione coloniale e il destino del popolo francese”. È del 1943 e prospetta, nel mezzo della guerra più sanguinosa che l’Europa sta combattendo, essenzialmente contro sé stessa, una decolonizzazione intesa come incontro tra eguali. Onestà intellettuale dovrebbe portarci a riconoscere che nulla di simile è stato possibile pensare a proposito del rapporto che l’Italia ha avuto con il processo di decolonizzazione. E questo per la dimensione incomparabilmente inferiore, per territori occupati e durata, della nostra “colonizzazione”, liberale prima e fascista poi, che ha permesso quella che Paolo Borruso chiama «decolonizzazione precoce». Il tema è affrontato in uno studio molto accurato, scritto con partecipazione e attenzione ai risvolti culturali dei processi di colonizzazione e decolonizzazione: L’Italia e l’Africa. Strategie e visioni dell’età postcoloniale 1945-1989 (Laterza, pagine 260, euro 22,00). Intanto il continente africano viene finalmente considerato un soggetto politico e non una semplice espressione geologica del movimento a placche del nostro pianeta. Poi perché l’Italia, per quanto si voglia relativizzare la sua posizione, considerandola solo come “potenza”, è il luogo da cui la stessa spinta all’universalizzazione “occidentale” è partita, dall’antichità, con l’Impero, al cristianesimo con la funzione unificatrice del papato. Questi due elementi, fondamentali, approfondiscono il rapporto che la questione del colonialismo intrattiene con il “destino” stesso dell’Occidente. Risolverla, interpretarla correttamente significa quindi non solo riconoscere l’errore fascista, contemporaneo se non addirittura secondo rispetto a quello dell’imperialismo capitalistico, nell’intraprendere un’avventura espansionistica tragicamente priva di futuro. Significa anche, se non soprattutto, gettare le basi, in un contesto radicalmente mutato – che significa l’emersione di nuovi pericoli e non solo di nuove opportunità – per l’attribuzione al continente africano di una soggettività politica attiva e propria, con tutto ciò che comporta in termini di riconoscimento delle istituzioni politiche ed economiche nate dalla decolonizzazione. Lo studio di Borruso, ordinario di Storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano, descrive il percorso della politica italiana nei confronti dell’Africa fino al crollo dell’impero sovietico. E se il processo di decolonizzazione ha assunto andature diverse a seconda delle aree linguistiche che i colonizzatori hanno imposto al continente, il fatto che in fondo gli spazi italofoni in Africa sono stati esigui se paragonati, per fare un esempio, alla stessa Francia, nondimeno l’Italia, con l’estensione dell’impegno missionario profuso della Chiesa, avrebbe potuto garantire, se adeguatamente valorizzato dalle istituzioni nazionali, un ruolo ancora più incisivo su processi di decolonizzazione. Non va dimenticato quanto lo stesso disegno statuale impresso al territorio africano, con il quale fare i conti, sia frutto della colonizzazione prima e della decolonizzazione poi, anch’essa “imposta” dalle potenze europee. Con tutto ciò che questo ha comportato. Il libro descrive un’azione politica tanto più significativa quanto più, sebbene relativamente, sganciata dagli interessi di “potenza” di altri soggetti che pur decolonizzandosi non per questo arretravano nelle loro pretese di sfruttamento delle immense risorse del territorio africano. Ecco, per tornare all’indicazione della Weil: incontro tra eguali! L’età postcoloniale ha davvero favorito questo incontro, o non si è trattato del cambiamento superficiale di un meccanismo tuttora all’opera? Quello dell’Occidente, qualsiasi cosa la parola oggi definisca, è stato davvero un congedo dall’Africa? Nei limiti, nelle contraddizioni e nelle diverse visioni strategiche che si sono presentate alla ribalta, almeno fino al 1989, forse, è nascosta la ragione di quanto oggi sia davvero necessario per portare a termine un processo rimasto, nei casi migliori, solo a metà.

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