«La lezione di Pietro. La più gratificante e appagante esperienza professionale che soltanto un atleta forte, sano, volitivo, curioso e intransigente come Pietro Mennea poteva stimolare e determinare, facendomi conoscere quali e quante possono essere le risorse fisiche umane quando sono sostenute da una psiche solida e motivava». Così scrive il professor Carlo Vittori nel suo ultimo libro
Nervi e cuore saldi (Calzetti-Mariucci Editori). Vittori è stato il “maestro” di campo di Pietro Mennea, l’ultimo eroe leggendario dell’atletica leggera italiana, scomparso precocemente, il 21 marzo 2013, a 61 anni. Il ragazzo di Barletta sotto la guida del professore ascolano è stato il primo bianco a scendere sotto i 20 secondi nei 200 metri: 19’’72 stabilito a Città del Messico nel 1979. Da allora è diventato la “Freccia del sud”, titolo omonimo della fiction Rai in cui David Riondino assume il volto di Mennea, mentre Vittori è interpretato da Luca Barbareschi.«Il film? L’ho visto in anteprima in una saletta a Roma invitato da Ricky Tognazzi e con me c’era anche Manuela, la vedova di Pietro – spiega Vittori –. Sapendo che si tratta di fiction mi sono ripromesso di non stare a seguire pedissequamente le eventuali sbavature storiche. L’ho guardato come si guarda un film e devo dire che mi è piaciuto. Barbareschi mi somiglia? Beh è molto più grosso del sottoscritto, ma interpreta bene il mio “mutismo”. Quando si stava in campo con Mennea, le chiacchiere stavano a zero: per me, ma anche per lui, prima di tutto veniva il lavoro. Quello che avevo da dire l’ho scritto riempiendo 20 diari e consegnando alla federazione quattro libri». Mennea a parole scritte a macchina ha superato il maestro, 23 libri pubblicati, e ha tenuto botta a quel lungo gioco del silenzio cominciato quando il ragazzino pugliese, si presentò al cospetto del Professore. Era il 1968, l’anno dell’oro olimpico di Tommy “Jet” Smith che con John Carlos sono passati alla storia per il pugno chiuso dei Black Panters sul podio di Città del Messico. «Al Trofeo Tartufoli arriva ’sto ragazzetto secco allampanato, al quale è vero, a fine gara dissi di mangiare qualche bistecca in più, ma chi ha messo in giro la voce che Vittori non aveva capito chi fosse Mennea, beh dovrebbe vergognarsi... Come avrei fatto a non accorgermi di un 16enne che correva i 300 metri in 34’10, dando cinquanta metri al secondo? Fu una folgorazione». Vittori quel giorno scese dalla tribuna e andò a congratularsi con il preparatore atletico del giovane Mennea, Franco Mascolo. «A volte ci si dimentica di Mascolo. Il suo è stato un atto di grande generosità, mi ha dato in mano un diamante grezzo che a dire il vero è rimasto tale in tutto, tranne che per le prestazioni che affinammo con il grande lavoro che svolgevamo assieme al Centro di Preparazione Olimpica di Formia». Vittori era lì, nella “fabbrica” dei talenti, «allora esclusivamente a disposizione dell’atletica leggera», dal 1966, rimanendovi fino all’84. «Al Coni forse si sono scordati che in quel lasso di tempo la nostra atletica vinse 47 medaglie olimpiche e, compreso quello di Mennea, furono cinque i record del mondo. Il segreto? Programmazione come da noi non si è più vista. Permanenza degli atleti a Formia per cicli di 15 giorni d’allenamento, seguiti dai loro stessi tecnici con i quali lo staff del Centro aveva continui feedback a distanza. E poi in Italia esisteva ancora una relazione seria tra la scuola e lo sport».Didattica e stakanovismo del Professore, facilmente inculcato nella testa dell’allievo prodigio che seguiva passo dopo passo in sella a una Vespa. «Un cimelio dei Giochi di Roma ’60 in dotazione a Formia – ricorda Vittori –. A Pietro non c’è mai stato bisogno di pungolarlo per allenarsi, ha sempre lavorato più di tutti. Questo è stato il suo punto di forza, ma anche un limite, a volte intollerabile, specie per chi gli stava vicino ed era costretto a far fronte ai suoi cambi umorali». La metamorfosi caratteriale avvenne dopo i Giochi di Monaco ’72. Le Olimpiadi dell’attentato agli atleti israeliani per mano dei palestinesi di “Settembre Nero”. «Paradossalmente quello è stato l’unico e ultimo periodo in cui Mennea corse con la mente sgombra dai suoi incubi. Da lì in poi, non era mai contento se non si autodistruggeva. Un’ossessione quei suoi continui “non mi sento preparato”. Giorno dopo giorno è diventato il peggior nemico di se stesso». Quindi il 4° posto alle Olimpiadi di Montreal ’76 vennero vissute come un fallimento. «Da non crederci, soprattutto perché una settimana dopo, a Viareggio, con umidità al 99%, fece il record italiano. Pietro corse praticamente da solo e con un tempo nettamente inferiore all’oro olimpico, il giamaicano Don Quarrie, che poi batté il 2 luglio di quell’anno all’Arena Civica di Milano con uno strepitoso 20’11». Era l’inizio dell’apoteosi che culminò nel primato del mondo in Messico, il 12 settembre del ’79. «Quel 19”72 è durato per diciassette anni e chi l’ha battuto, Michael Johnson, poi abbiamo saputo, lui e gli americani, quali “aiutini” hanno usato per vincere... La nostra era un’atletica pulita e controllata. L’unico “doping” di Mennea con me erano gli allenamenti che cambiavano continuamente». E grazie a quei carichi di lavoro variegati e ad hoc, conquistò anche l’oro olimpico di Mosca nell’80. «Prima di quelle Olimpiadi il suo tormentone era: “Ma dove andiamo? Poi mi diranno che ho vinto perché non c’erano gli americani”. E io giù rassicurarlo: ma guarda che li hai già battuti l’anno scorso in Messico... Eravamo sul tetto del mondo, ed era sempre come stare in apnea». Quando tornò a galla, Mennea nel gennaio dell’81 a sorpresa decise di dire stop all’atletica e di darsi agli affari. Una decisione choc per Vittori. «Con Montezemolo si era messo d’accordo per ricevere in premio la rappresentanza della Fiat-Iveco a Barletta. Ma avete avvertito la Federazione? Provai a dirgli. Venni messo davanti al fatto compiuto, trattato come un pedalino. Pietro col senno di poi si pentì amaramente di quella scelta. Mi confidò di averci rimesso 600milioni di vecchie lire, più un miliardo e mezzo di sponsorizzazioni andate in fumo... A giugno dell’82 tornò a testa bassa e mi disse mesto: “Professore, sono rimasto in allenamento, posso farcela. Voglio ricominciare”. Pavoni aveva appena vinto l’argento agli Europei di Atene e quello fu uno stimolo per Pietro che mordeva il freno per riconquistare in fretta il tempo perduto». Nell’83 Mennea tornò sul podio ai Mondiali di Helsinki: bronzo nei 200 e argento nella staffetta 4x100. Ai Giochi di Los Angeles 1984 gareggiò nella sua quarta finale olimpica consecutiva, ma si piazzò solo 7°. Troppo poco per le sue ambizioni sfrenate. Mollava e ritentava, ma un anno prima della sua quinta Olimpiade, Seul ’88, la rottura definitiva con il suo maestro. Galeotta fu un’intervista rilasciata l’11 agosto 1987 a “La Repubblica” a firma di Gianni Minà in cui confessava di essere stato anche lui, come tanti atleti in quel periodo, dal diabolico americano dottor Kerr. E oltre ad aver provato sulla sua pelle un’iniezione di somatropina, Mennea congedava di fatto il Professore dichiarando a Minà: «Vittori può anche aver inventato, come dice, i metodi di allenamento che mi hanno fatto progredire, ma se non c’erano il mio cervello, il mio carattere, le mie gambe, non sarebbe successo niente». Parole che lo ferirono profondamente.«Da allora non ci siamo più parlati. Ho rivisto Pietro solo nella camera ardente del Coni... Per me lui è stato il miglior allievo, ma l’ho trattato come tutti gli altri: come Erminio Azzaro (prima medaglia italiana nel salto in alto), Gian Marco Schivo (oro nel salto in alto ai Giochi del Mediterraneo) Marcello Fiasconaro (record del mondo negli 800) o Donato Sabia (oro europeo negli 800) che mi hanno dato altrettante soddisfazioni. Il mio motto è sempre stato: i figli si baciano solo quando dormono. E così ho fatto anche con Mennea». Questa è la vera storia del maestro e del suo allievo prediletto. Un rapporto avaro di slanci d’affetto e purtroppo pieno di generosità non ripagate. «Nella fiction, l’unica cosa realmente accaduta è lo stupendo cronometro Omega che Mennea mi donò, dato che il mio me lo avevano rubato a Montreal. L’altro, e ultimo dono, me lo fece per il mio compleanno: una valigetta 24 ore con un biglietto in cui scrisse solo la sua data di nascita: “28 giugno 1952, così Professore si ricorderà di farmi il regalo”. Momenti felici ce ne sono stati, ma sono stati di più i sorrisi spenti, le frasi amaramente taciute, i silenzi reciproci, con quello che nell’immaginario collettivo è un mito dello sport, mentre per il Professore rimarrà per sempre «la più grande conquista, ma anche la più grande delusione della mia vita. Ringrazio Mennea di una cosa soltanto – conclude Vittori emozionato –: nonostante le difficoltà della nostra convivenza, con lui ho imparato la professione più nobile dello sport, quella dell’educatore-allenatore».