giovedì 3 ottobre 2024
Dopo la denuncia ai Giochi di Parigi torna a parlare la velocista in fuga dai taleban. «Non potevo tacere: vengono negati diritti fondamentali come l’educazione e lo sport»
Lvelocista afghana Kimia Yousofi, 28 anni

Lvelocista afghana Kimia Yousofi, 28 anni - Epa/Valdrin Xhemaj

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Dall’altra parte del mondo, a Sydney, dove vive da due anni sognando tutte le notti di tornare in Afghanistan, la velocista Kimia Yousufi risponde trafelata tra un allenamento e l’altro. È bellissima avvolta nel velo nero che le incornicia il viso acqua e sapone e corre, corre anche mentre parla: tra i ricordi, dalle olimpiadi di Rio a Tokyo fino a Parigi, dove ha lanciato il suo messaggio di riscatto al mondo per le donne afghane; tra le parole, in un inglese che vorrebbe più fluente e che studia tutti i giorni da quando è arrivata come rifugiata in Australia, dopo la fuga da Kabul; tra i sogni, spezzati dai taleban e ricostruiti con ostinazione «perché nessuno può fermarli, i miei sogni. Nessuno può fermarmi ».

Kimia, quando ha cominciato a correre?

«Nel 2012, avevo 16 anni. Non mi era mai passato per la testa di diventare un’atleta, tanto meno di praticare qualche sport a livello agonistico. Ma la mia famiglia, i miei amici, tutti insistevano: “Sei veloce, hai un talento, devi provare”. All’epoca tutto quello che mi interessava era studiare: volevo diventare medico, volevo aiutare le persone. E volevo aiutare l’Afghanistan: sono nata e cresciuta in Iran, da rifugiata, i miei genitori erano scappati lì prima che io nascessi. Da bambina chiedevo loro che cosa significasse essere afghani, perché non potessi crescere a casa mia. Così dell’Afghanistan mamma e papà mi raccontavano tutto, della sua bellezza, delle sue tradizioni, del male che l’aveva travolto, della sofferenza e della povertà delle persone. Sono cresciuta con l’idea fissa di fare qualcosa per il mio Paese, qualcosa di grande: la medicina mi sembrava la strada giusta da percorrere». Cosa accadde? «Il 27 luglio del 2012 eccomi lì, davanti alla televisione, a guardare la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Londra. Ho in mente ogni secondo di quella serata: non so cosa accadde di preciso dentro di me, mi trovai in lacrime quando vidi entrare nello stadio la delegazione dei nostri atleti. E quella bandiera… Vederla sventolare in alto fu una specie di chiamata, di illuminazione: c’era un modo per tenere alto anche il nome del mio Paese con lo sport, dunque! Decisi allora di provare a correre. Un anno dopo mi allenavo per entrare nella nazionale. Saltai l’esame di ingresso a Medicina all’università e rinunciai ai corsi privati, erano troppo costosi».

Nel 2016 era ai round preliminari delle Olimpiadi di Rio: 22ª in classifica finale, ma a casa tornò col record nazionale dei 100 metri corsi in 14.02 secondi. Poi Tokyo, infine Parigi…

«Tokyo fu un’emozione grandissima, mi scelsero come portabandiera insieme al grande campione di taekwondo Farzad Mansouri. Il mio sogno s’avverava: rappresentavo il mio Paese finalmente e ne ero così fiera. Migliorai anche il mio tempo, scendendo a 13.29. Una settimana dopo – sembra incredibile – da quello stesso Paese ero costretta a fuggire di nuovo, con la mia famiglia: il 15 agosto del 2021 i taleban rientravano a Kabul. Finimmo in Iran anche stavolta, poi grazie al Comitato olimpico internazionale in Australia. Dovevamo ricominciare tutto daccapo: non sapevamo cosa sarebbe stato di noi, non conoscevamo la lingua e la cultura di chi ci stava accogliendo, non sapevamo come vivere, se avremmo mangiato il giorno dopo. Io decisi, ancora una volta, di non fermarmi, di continuare a correre. Mi permisero di allenarmi, lo feci. E guardando quello che accadeva in Afghanistan decisi che sarei andata anche a Parigi».

L’ha fatto nella squadra formata dal Comitato olimpico afghano in esilio, non in quella dei rifugiati. Perché?

«Volevo rappresentare ancora il mio Paese. In particolare, 21 milioni di donne cancellate da un regime che è una vergogna e un non senso per lo stesso islam: nessuna delle nostre leggi dice che le donne non possono studiare o addirittura che non possono parlare».

I taleban hanno riconosciuto soltanto i tre atleti maschi della squadra: anche lo sport è vietato alle donne in Afghanistan. Cosa c’era scritto sul cartello che ha mostrato alla fine delle gare preliminari?

«Che l’educazione e lo sport sono diritti fondamentali: non possono essere negati. Le Olimpiadi sono un messaggio di uguaglianza, solidarietà e gioia: questi valori devono contagiare il mondo».

È arrivata ultima. Le è dispiaciuto?

«Non sono andata a Parigi per vincere. A Rio e Tokyo sì, ero andata per farlo, ma a Parigi sono andata per senso di responsabilità. Qualcuno mi ha criticato, qualcuno mi ha osannato, hanno detto che il mio era un messaggio politico. Della politica invece non mi interessa niente. È una questione di responsabi-lità, lo ripeto: io dovevo, io devo parlare per le donne del mio Paese. L’ho fatto rispettando le regole».

Pensa a Los Angeles?

(Ride) «Penso a domani in realtà. Non ho ancora idea di cosa fare del mio futuro: al momento sto studiando inglese. E mi alleno, sei giorni su sette: qui mi permettono di farlo insieme alla squadra australiana. Non so dove sarò tra quattro anni, ma spero che l’Afghanistan allora sia libero e prego ogni giorno di poterci tornare. Vorrei piuttosto mandare un altro messaggio attraverso questa intervista alle donne afghane che sono scappate da Kabul e sono state accolte nel vostro Paese».

Prego.

«Siate forti. Se qualcuno vi dice che le donne sono più deboli, voi siate ancora più forti. Non lasciate che altri decidano per voi, decidete quello che volete. Quello che volete essere, potete esserlo. Io sono un’atleta, voi potete essere atlete come me, o medici, attrici, musiciste. Qualsiasi cosa decidete di essere, fate il meglio che potete nell’esserlo».

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