Shadi Ghadirian, “La sparizione della donna” (particolare) - Courtesy of the artist
Shadi Ghadirian ha esposto le sue fotografie da Teheran a New York, ritraendo la donna iraniana in diverse sfaccettature, spesso con tonalità opache, per raccontarne il percorso, attraverso la conquista, sempre più difficile, dei diritti. Con lei abbiamo voluto parlare dell’Iran, non tanto attraverso l’attualità, ma con una profonda attenzione storica e filosofica, cercando di cogliere progressi, errori, fallimenti, relazioni difficili. Con lei sono emersi spunti di riflessione nuovi, anche riguardo a quell’ondata di dignità e libertà dei popo-li, che si è venuta a creare con l’esempio dell’Ucraina.
Shadi Ghadirian, “La sparizione della donna” - Courtesy of the artist
Le sue produzioni fotografiche ci raccontano l’Iran attraverso le donne intellettuali, progressiste o anche attraverso quelle che, fra le mura domestiche, faticano a trovare voce. Il suo percorso artistico ha anche descritto, tempo fa, un leggero miglioramento della condizione della donna, nel suo Paese. Eppure oggi la tela dei diritti sembra nuovamente sgranata.
Le donne iraniane, come ben noto, fecero notevoli progressi durante l’era Pahlavi (19251979). L’istruzione, sia per le ragazze che per i ragazzi, era gratuita. Quando l’Università di Teheran fu aperta, nel ’36, furono ammesse le donne insieme agli uomini. Nel ’63 le donne acquisirono il diritto di voto e di candidarsi al parlamento. In base alla legge sulla protezione della famiglia, le donne hanno ottenuto il diritto di presentare una petizione per ottenere il divorzio e per ottenere la custodia dei figli. Nel ’78, alla vigilia della rivoluzione iraniana, 22 donne sedevano in parlamento e 333 donne facevano parte dei consigli locali eletti. Un terzo degli studenti universitari erano donne. Due milioni di donne, inoltre, erano nella forza lavoro. Questo Iran va ricordato, anche se poi qualcosa è andato storto. La rivoluzione del ’79 ha politicizzato la massa delle donne iraniane, ma le aspettative femminili non sono state davvero realizzate. Queste contraddizioni ho cercato di riprodurle nei miei reportage fotografici, anche se, con la mia quasi giovane età, non ho conosciuto quell’Iran controverso prima del ’79.
Lei cura un importante sito sulle donne iraniane, insieme a uno dei siti internet di fotografia più consultati al mondo. Con il suo sguardo, diviso fra l’obiettivo e le sue tante letture, quali punti di debolezza ha rintracciato nel percorso rivoluzionario del suo Paese?
Inevitabilmente qui si finisce a parlare anche del pesante controllo religioso. La capacità politica dell’islam da parte della rivoluzione iraniana ha militarizzato la cultura politica regionale, provocando instabilità. In quel momento, gli attivisti erano convinti che con l’islam avevano una carta vincente in più da impiegare come meccanismo sicuro per scuotere le coscienze civili. Non è facile e non è utile avere un giudizio netto, ma i fatti (quelli che io racconto oggi con lo zoom) ci parlano di tanti errori nell’impatto sull’intera area confinante. Solo poco dopo il trionfo della rivoluzione islamica, il 20 novembre, 400 persone, peraltro bene armate, presero il controllo della Grande Moschea alla Mecca. Quell’evento, senza precedenti, scosse le autorità saudite. In quel processo, secondo fonti ufficiali, furono uccisi 127 soldati, 25 pellegrini e 117 ribelli. Khomeini considerava i governanti del Golfo Persico come moralmente corrotti, che promuovevano l’“islam d’oro” degli americani. La retorica del paradigma islamico contro il “Grande Satana” americano ha causato gravi difetti a quella rivoluzione, anche se, di certo, non va sminuita la sua portata.
Vorrei richiamare, alla luce della più recente storia, la sua attenzione sul dibattito ideologico nell’Iran post-rivoluzionario e nell’ Unione Sovietica riguardo a quella che l’ultimo scià dell’Iran chiamò l’alleanza tra i neri e i rossi. Al di là di questa presunta intesa, è degno di nota il fatto che la dimensione ideologica fosse, in realtà, un elemento di forte e incisiva sfiducia tra Mosca e Teheran, soprattutto durante il primo decennio della rivoluzione islamica. Tuttavia, nonostante lo slogan ufficiale della politica estera nella Repubblica islamica (”Né est, né ovest”), per il nuovo regime è stata inevitabile essere meno ideologico col blocco orientale rispetto a quello occidentale. Che ne pensa?
Non so quanto possa essere utile una mia risposta, che inquadra soprattutto il mondo dell’arte; tuttavia penso che la natura antimperialista della rivoluzione islamica sia stata un’evoluzione positiva perlomeno rispetto alla posizione del regime imperiale. Alla fine del decennio in questione, la caduta dell’Unione Sovietica provocò, a Teheran, un incisivo sentimento di vittoria ideologica religiosa sull’ideologia atea comunista. Ovviamente poi, quando questi sentimenti si esasperano, diventano pericolosi.
Lei ha detto che «i filosofi hanno capito poco dell’Iran contemporaneo a differenza dei fotografi». Cosa intendeva?
Era una battuta con uno sfondo di verità. Nel 1962, Jalal Al-e-Ahmad pubblicò Gharbzadegi (“Occidentosi”), che è il suo saggio più famoso, contenente una critica pungente della tecnologia occidentale. Sosteneva che il declino delle industrie tradizionali iraniane fosse l’inizio della «vittoria economica dell’Occidente sull’Oriente». Il suo messaggio filosofico fu ampiamente accolto dall’ayatollah Khomeini. Questo modo di descrivere i fatti non ha reso pienamente giustizia ai desideri di una parte della società iraniana. Non andavano evidenziate solo le differenze, peraltro ovvie, ma anche il desiderio di contatto fra culture diverse. Io, ad esempio, amo la cultura cinese, giapponese e mi piace scovare affinità con la mia, evitando di descrivere le differenze come insanabili fratture. Alcuni filosofi invece hanno commesso quest’errore.